Con un pronunciamento della Congregazione delle cause dei santi, di cui si è avuta notizia il 9 gennaio scorso, la Chiesa ha riconosciuto il martirio di Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso 35 anni fa da un sicario assoldato dal regime militare di destra che guidava il Paese negli anni ’80. Romero, testimone di pace e di riconciliazione, veniva assassinato sull’altare, subito dopo la consacrazione eucaristica, il 24 marzo 1980. Da allora “Monseñor vive”, è “San Romero d’America”, come si legge sui muri delle città e dei villaggi latino-americani. Ora lo sarà anche per la Chiesa universale. La storia dunque ha portato alla sconfitta definitiva di quanti pensavano che l’eliminazione fisica togliesse di mezzo la voce di un uomo giusto: è avvenuto il contrario, Romero è e sarà sempre di più un simbolo, una figura decisiva per la fede cristiana. La vittima di allora trionfa oggi, finalmente.
Romero è martire, perché ucciso “in odium fidei”. Romero è stato colpito non per motivazioni politiche, ascrivibili al clima di contrapposizione tra est e ovest, o alla guerra civile che insanguinava il Salvador, come per anni molti dei suoi confratelli vescovi avevano cercato di far credere. Romero era scomodo, in vita come in morte. Il suo esempio era troppo alto, faceva paura. E non solo alle cancellerie occidentali, ma ad una Chiesa che non riusciva a seguirlo e a comprenderlo completamente. Per troppo tempo Romero è stato etichettato politicamente. Errore grave soprattutto se si conosce la sua vicenda biografica.
Monseñor non è stato un politico, non ha mai voluto essere un politico. Romero è stato un vescovo, un cristiano coerente fino alla fine. E proprio per questo la sua azione è stata prettamente “politica”, perché vicina ai poveri, al popolo, perché fautrice di riconciliazione, perché disposta a pagare in prima persona. Prima di tutto però Romero aveva in mente la sua missione pastorale. Tutto partiva e ritornava alla fede. Quella fede semplice che l’arcivescovo aveva imparato in famiglia, e che poi aveva ritrovato – dopo un momento di svolta interiore – negli amici uccisi dal regime e nell’intero popolo salvadoregno che invocava pace e tranquillità. Il suo motto episcopale era “sentire cum ecclesia” perché lui si sentiva pienamente in comunione con la chiesa locale e con quella universale, benché a San Salvador come a Roma, qualcuno non avesse compreso la sua impostazione.
Oggi lo capiamo meglio, anche grazie al linguaggio e ai gesti di papa Francesco. Romero e Bergoglio non sono rivoluzionari. Cercano di riportare la Chiesa a comportamenti evangelici. Ambedue non hanno paura di andare controcorrente. Con tutta probabilità durante il pontificato di Francesco Romero sarà canonizzato. Una buona notizia per quanti credono che la Buona notizia del Vangelo possa avere ancora cittadinanza a questo mondo.
Lascia una recensione