Se le parole hanno ancora un valore, direi che questo è un tempo segnato da parole di disvalore, di incomprensione, di sospetto, di timore da parte di molti. È un tempo di parole male/dette. Troppa la cattiveria, il qualunquismo, la superficialità delle affermazioni, la manomissione dei significati. Anche la pandemia, che a fatica riusciamo ad allontanare, ha bruciato parole e comportamenti che pensavamo consolidati in noi.
Altro che “Uscirne insieme”, “Andrà tutto bene”, “Più distanti oggi per abbracciarci domani”. Ci siamo ritrovati a guardarci di traverso, a dividerci, a rinfacciarci le nostre idee, a combattere su fronti opposti. Non sono mancati i buoni tentativi di richiamo al confronto, alla comprensione, a quella sana dialettica che discute, anche animatamente, ma che regala sempre rispetto dell’altro. La comunicazione delle parole di questo tempo si è ridotta, alla stregua di una serrata assemblea di condominio, al rivendicare posizioni che nulla hanno a che fare con la scienza, con la razionalità e l’obiettività dei dati, in nome di una libertà di cui si è tradito ogni valore, mentre i “più coraggiosi ” si sono nascosti dietro la loro tastiera, per spargere veleno invece che per chiarire, affidandosi a qualche slogan, sbracato e gridato con forza, per affermare la bontà del proprio s/ragionamento.
Vorrei non mistificassimo anche la parola “avvento”, che è il manifestarsi di una venuta, di un arrivo, di qualcosa e qualcuno che irrompe nel tempo, ogni anno, quasi inaspettatamente e cocciutamente, per richiamarci al senso vero della vita. Papa Francesco, che ricordiamo come icona del dolore, silenziosa e profetica, nella deserta piazza San Pietro agli inizi della pandemia, ricordava nel 2015, al popolo africano, che “l’Avvento è il tempo per preparare i nostri cuori ad accogliere il Salvatore, cioè il solo Giusto e il solo Giudice capace di riservare a ciascuno la sorte che merita”. Parole definitive, ma allo stesso tempo piene di speranza. E proseguiva: “Qui come altrove, tanti uomini e donne hanno sete di rispetto, di giustizia, di equità, senza vedere all’orizzonte dei segni positivi. Ma, a costoro, il Salvatore viene a fare dono della sua giustizia”.
E allora cosa ci meritiamo, noi di questa parte del mondo, dopo questo tempo? Cosa ci verrà portato in dono dal bimbo adagiato nella culla, se non lo riduciamo solo a tiepido simbolo dei mercatini natalizi? Quali parole dirà “il Giusto e il solo Giudice”, ad ognuno di noi, singolarmente?
L’Avvento è, sin dalle sue origini, un tempo di attesa operosa, un tempo per far nascere relazioni, un tempo dove recuperare la capacità di perdonare e riappacificarci, dove recuperare i sorrisi nascosti e gli abbracci mancati, un tempo per riflettere sulle ingiustizie e reinventarsi operatori di equità, per rafforzarci nell’idea che l’uomo non può essere vittima di un altro uomo, un tempo per dirci che l’economia e il profitto non hanno il primato sulla salute, su un mondo che deve essere salvato dalle nostre azioni scellerate di consumismo.
E allora potrebbe essere che questo tempo di avvento non sia più per noi il tempo delle parole, ma piuttosto il tempo del silenzio, di quel silenzio che è contemplazione del creato e che ci porta ad una rinascita interiore che supera gli egoismi e le differenze?
La pandemia ci ha lasciato, anche se non sempre appaiono, segni positivi. Molti hanno riscoperto la solidarietà, altri si sono fatti vicini ai più deboli e negli ospedali abbiamo assistito a gesti di vera umanità, accompagnata da coraggio e dedizione. Molti hanno teso la mano, senza orario e senza bandiera. Persino nella liturgia delle Messe, alle volte così aride e desolate, il segno della pace ha assunto un valore simbolicamente più bello ed efficace: scambiarci uno sguardo, un sorriso, posare la propria mano sul cuore, ci ha fatto vedere la possibilità di tenerezza e di gioia. Uno sguardo silenzioso va molto più lontano di una banale stretta di mano, arriva a molte persone, quasi all’infinito e alle volte riscalda il cuore. Uno sguardo o un sorriso riempiono l’anima e ci fanno sentire meno soli e da questi gesti di gratuità nasce calore e speranza.
Nell’avvento di quel tempo, Maria e Giuseppe sono stati dei pellegrini, dei viandanti o meglio dei migranti, in una terra inospitale che non conoscevano, che non dava sicurezze, né calore e neppure rispetto e accoglienza. Non avevano neanche un rifugio per la notte, quelle notti abitate dall’ombra incombente di un Erode malvagio e vendicativo. Nel nostro avvento, Maria e Giuseppe sono accampati al confine della Bielorussia, o in un container sulle coste francesi o combattono con le onde nel Mediterraneo o di fronte all’isola di Lesbo.
Dormono anche nelle solitudini delle case, vivono nel dolore lancinante degli abbandoni e nella violenza sulle donne e sui bimbi indifesi.
Saremo come Erode anche noi? Troveremo parole vuote per giustificarci? Sprecheremo parole di ipocrita solidarietà? O cercheremo, nel silenzio, la forza per essere davvero donne e uomini di buona volontà, pronti ad “accogliere il Salvatore, cioè il solo Giusto e il solo Giudice capace di riservare a ciascuno la sorte che merita”?
Proviamo, allora, ad abitare il silenzio che è colmo delle nostre parole nascoste e migliori.
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