Sono settimane di ansiosa attesa – pagandosi l’alloggio in un albergo o in un bed and breakfast – per non pochi universitari a caccia di appartamento a prezzi accessibili.
Trovi una singola solo a 700 euro in centro a Trento – come documentiamo nella prima puntata della nostra inchiesta – e sei costretto ad andare a cercarla a Rovereto, dove pure il mercato privato si sta saturando.
L’emergenza “affitti universitari” covava da tempo in provincia (Trento era di 7 punti sopra la media già qualche anno fa), ma è stata acuita da tre fattori concomitanti: la crescita generalizzata dei prezzi di mercato; la pandemia che nell’attesa della ripresa delle lezioni ha spinto i locatari ad affittare anche a famiglie; la comunicazione arrivata in agosto della didattica in presenza al 100 per cento che ha costretto molti studenti a mettersi in ricerca quando i posti letto risultavano ormai occupati oppure disponibili solo a prezzi proibitivi.
Tre spinte che hanno reso più stretto il collo dell’imbuto per gli studenti che arrivano da fuori sede (sono il 65 per cento dei 17 mila iscritti all’ateneo).
Anche molte matricole, attirate dalle lusinghiere classifiche di merito delle nostre Facoltà e da un passaparola sulla buona qualità della vita all’ombra del Bondone, si sono trovate in questi mesi a consultare nervosamente i vademecum sui contratti per saper affrontare agenzie immobiliari o singoli proprietari prima di dire: ok il prezzo è giusto!
Nelle congiunture di emergenze non manca mai chi vuole e può trarre illegale vantaggio da questa disperata ricerca di casa: un fenomeno ammesso dallo stesso assessore all’università Mirko Bisesti che nella risposta all’interrogazione della consigliera provinciale Lucia Coppola sul “caro affitti” segnalava già lo scorso anno l’impegno a evitare il fenomeno degli affitti “in nero” attraverso un piano triennale di nuove residenze gestite dall’Opera Universitaria.
L’autunno caldo 2021 dell’edilizia universitaria (ben diverso peraltro da quello degli anni Ottanta in cui mancavano ancora le aule per la didattica e si tenevano lezioni negli oratori cittadini) può essere però la stagione opportuna per rimpallarci un quesito di fondo ancora irrisolto: che cosa rappresenta per i trentini questo dieci per cento “universitario” di popolazione cittadina? E viceversa? Se è forse superato un generazionale pregiudizio che risale alle “occupazioni” sessantottine (e degli anni seguenti), potrebbe però essere segnale di una perdurante cronica disattenzione il tirare in ballo la componente universitaria soltanto nei periodici dibattiti sulla “movida” o, come in questi giorni, per il “caro affitti”.
Sgomberiamo peraltro il campo da fastidiose e ingiuste generalizzazioni: l’universo studentesco è composto di tante particelle che si muovono in mille direzioni, spinte da esigenze o consumi del tempo libero anche opposti. “E ci sono situazioni, zone, persone che hanno ormai integrato una certa presenza studentesca – come dice un osservatore partecipante – mentre ci sono situazioni, zone, persone che non hanno affatto integrato altre presenze. Le colpe degli uni non devono venire attribuite ad altri, le colpe degli uni non devono essere cancellate dalle virtù di altri”.
Una conferma è suggerita dai titoli di questi giorni: gli studenti che sbarcano a Trento confidando in un ambiente privilegiato per qualificarsi (alcuni di loro poi decidono perfino di fermarsi per proseguire nella ricerca scientifica post-laurea) non possono essere trattati come “clienti”, buoni se non danno disturbo e pagano puntualmente.
Una prospettiva di vera integrazione è quella di cui abbiamo avuto prova in alcuni ambienti sportivi, nelle iniziative di partecipazione (si pensi alla radio universitaria) e di volontariato, come avviene nei convitti e nelle residenze coordinate dalla pastorale universitaria (quasi 500 posti in tutto): sono casi e situazioni in cui gli studenti venuti a Trento vengono considerati anche come risorse umane in grado di arricchire il territorio attraverso un coinvolgimento ad alto scambio di umanità, in un dialogo anche interetnico o intergenerazionale. Si pensi agli studenti che si mettono in gioco nelle comunità che accolgono anche a richiedenti asilo, quanti animano le società sportive universitarie, o condividono l’alloggio con persone in stato di disagio.
A proposito, forse i tempi sono maturi per lanciare da queste pagine una proposta che in altre città italiane (vedi Torino) è diventata gradualmente realtà: proporre e costruire insieme agli studenti universitari e alle loro sigle associative una formula di cohousing (abitazione in comune) che possa sperimentalmente vedere qualcuno di loro accolto “alla pari” in casa di anziani bisognosi di una compagnia silenziosa. Studenti di fiducia, disponibili ad un esperimento coabitativo di alleanza intergenerazionale che potrebbe fare tanto bene ai quartieri più anziani della nostra città che invecchia. Perché non pensarci da subito, per anticipare il futuro?
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