Il titolo richiama un cliché spesso citato quando si parla dell’argomento. Come nel caso di “Mussolini ha fatto anche cose buone – Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” e “Prima gli italiani – (sì, ma quali?)”, è il sottotitolo del nuovo lavoro di Francesco Filippi, storico della mentalità e formatore originario di Levico Terme, a suggerire l’opera di decostruzione che ci sta dietro. Il libro si intitola “Noi però gli abbiamo fatto le strade” (Bollati Boringhieri), è uscito il 7 ottobre e oggi, venerdì 15 ottobre, viene presentato al Salone del Libro di Torino. Tratta il tema del colonialismo “tra bugie, razzismi e amnesie”, come suggerisce il sottotitolo.
Perché proprio il tema del colonialismo dopo il fascismo e dopo la storia (complessa) dell’identità italiana?
Il tema del colonialismo è arrivato da sé nel momento in cui si è trattato di ragionare su ciò che ha significato tutto il mio lavoro sulla memoria, talvolta mancata, che gli italiani e le italiane hanno nei confronti di parti consistenti della loro storia.
Gli italiani sono stati colonialisti per quasi un secolo, dal 1868, con la Convenzione di Assab, al 1960, con la fine del mandato fiduciario italiano in Somalia. Ciò significa che gli italiani sono stati colonialisti molto più di quanto non siano stati fascisti, repubblicani e sabaudi. Il colonialismo è stato il fenomeno di più lunga durata e di più costanza nelle intenzioni di governo e nell’immaginario dell’opinione pubblica della storia d’Italia. Eppure se ci pensiamo è un fenomeno che praticamente non ha lasciato traccia nell’immaginario collettivo delle italiane e degli italiani. Questa grande scomparsa, questo grande punto di domanda riguardo la memoria della popolazione italiana è il punto di partenza da cui si snodano la mia indagine e la mia narrazione. Sono molto stupito da questo fatto, e in primis da me stesso, perché sono uno degli italiani che prima non conoscevano gran parte di questa storia. Le ricerche per questo libro mi hanno insegnato molto della mancata coscienza di quello che è stato.
Com’è stato elaborato il colonialismo rispetto al fascismo, che pure ha avuto, come raccontava per esempio in “Ma perché siamo ancora fascisti?”, un’elaborazione incompleta?
Mentre per il mio lavoro sul fascismo ho dovuto fare un’opera di decostruzione, smontando alcuni miti, per quanto quanto riguarda il colonialismo ho invece notato che c’è veramente poco di raccontato. C’è una differenza sostanziale. Il fascismo è stato vissuto da una parte consistente della popolazione italiana per un ventennio. Il colonialismo, invece, è stato una fase della storia del nostro Paese che ha riguardato da vicino una fetta particolare della società: i soldati e le pochissime migliaia di persone che lavoravano nell’amministrazione coloniale. Quindi il pezzo di memoria pubblica, ovviamente riportata e filtrata dalle esperienze dei singoli, non ha lasciato praticamente nulla, se non degli spezzoni propagandistici, tra l’altro di una particolare propaganda: quella totalitaria del fascismo. Questi spezzoni hanno impedito la costruzione di una coscienza coloniale e hanno impedito anche di riflettere sulle responsabilità coloniali del nostro Paese. C’è stato una sorta di blocco temporale per cui per decenni gli italiani e le italiane non si sono resi conto che l’oltremare, come veniva chiamato, era una parte consistente della propria storia.
Però questo periodo è diventato comunque, più o meno consapevolmente, parte della cultura italiana. Infatti ci sono delle parole, come la classica “ambaradan”, che provengono da episodi del colonialismo italiano…
Sì. Questo lungo periodo ha prodotto degli effetti contaminanti. Ne parlo nel libro per quanto riguarda il linguaggio, perché è la cosa che più velocemente abbiamo sottomano – anzi, in bocca – quando ci riferiamo a determinati concetti. E l’armamentario linguistico che ancora rimane impigliato nelle teste degli italiani viene forgiato nella prima metà del Novecento e alla fine dell’Ottocento dalla propaganda che i governi dovevano mettere in campo per giustificare le avventure coloniali. Ecco quindi che l’immaginario viene costruito e filtrato da quelli che sono i racconti di propaganda: “ambaradan”, se ci pensiamo, è una parola che qualcuno utilizza ancora oggi. Non è più diffusissima, ma comunque si sente. Significa “gran caos”, ma in realtà se andiamo a vedere cosa fu la battaglia dell’Amba Aradam, scopriamo che fu un vero e proprio massacro. Un vero e proprio crimine di guerra in cui vennero usati anche i gas, non solo contro i soldati, ma anche contro la stessa popolazione: le donne, i vecchi e i bambini che erano al seguito dell’esercito etiope vennero falciati dagli italiani quando l’esercito etiopico andò in rotta. Non mi verrebbe quindi da farne un esempio per un giocoso scambio di parole o una metafora traslata riguardo alla confusione della camera dei bambini. Gli italiani devono fare i conti col fatto che l’italiano è innervato di questi lasciti, perlopiù inconsci, di un periodo che non ricordiamo ma che ancora oggi pesa.
Nel libro nomina anche Calimero…
Sì. È uno dei passaggi che più esemplifica il rapporto stretto tra colonia e concezione dell’altro in senso razziale e razzista. Calimero è un cartone animato di Carosello che nasce per fare la pubblicità a un detersivo molto noto all’epoca. La parabola di Calimero, che si svolgeva tutte le sere con spezzoni di pubblicità animata, passava attraverso un concetto che se ci pensiamo oggi è ributtante: Calimero era nero ed era triste per questo, gli andava tutto storto in quanto nero, ma per fortuna poi la cosiddetta “olandesina” – e qui scattava la pubblicità del detersivo – lo prendeva, lo lavava e lui, diventando bianco, smetteva di essere triste e sfortunato. Il parallelo con l’idea della negritude, come la chiamano i sociologi francesi, e quindi il fatto che avere un determinato colore di pelle significhi anche avere un destino scritto nel proprio dna, passa attraverso le vicissitudini di Calimero, che è sfortunato in quanto nero.
Chi racconta quindi agli italiani la situazione nelle terre appena conquistate?
Ci sono due grandi filoni. Il primo è quello governativo. Le colonie costano, e andare in colonia significa fare delle operazioni economicamente impegnative per il bilancio dello Stato: bisogna quindi giustificarlo in qualche modo. C’è tutta una propaganda che parte già nell’età liberale e che racconta le colonie come un grande vantaggio di carattere economico, gli eldorado in cui fare un sacco di soldi, oppure come luoghi che hanno bisogno della civilizzazione italiana: “Noi che siamo una nazione progredita abbiamo l’obbligo di andare ad aiutare questi, che senza di noi non ce la farebbero”.
Un’altra parte di racconto deriva invece da chi in colonia ci va, e sono perlopiù soldati. Sono centinaia di migliaia di giovani italiani che nel corso di quasi ottant’anni di colonia prendono e se ne vanno in Africa, e riportano dell’Africa quello che ricordano. Io ne cito uno di questi, perché è lui stesso a raccontarsi: il giovane Indro Montanelli. Montanelli vive la colonia come un’avventura salgariana, compresa la triste vicenda della sua sposa bambina, di cui si vanta non nel ’36 o nel ’37 ma alla vigilia degli anni Duemila, conscio del proprio peso di colonizzatore nella vita dei colonizzati.
Come si conciliano il racconto governativo e la narrazione dei soldati?
Vanno di pari passo. Uno ha un’accelerazione incredibile durante il fascismo, che investe in propaganda coloniale. Negli anni Trenta infatti, con l’occupazione dell’Etiopia, in Italia la propaganda governativa sulle colonie è martellante, forte e di carattere razziale. Quando poi nel 1941 si perde l’impero e gli alleati occupano le colonie italiane si ha una specie di rottura. In questa propaganda nessuno più parla di colonie in Italia e quella che rimane in piedi nel ricordo degli italiani è l’ultimo spezzone di questa propaganda, quella fascista, cioè quella più razzista e razziale. La cosa drammatica è che però ancora oggi riaffiora, in concetti come “Gli immigrati ci rubano le nostre donne”, che è una lettura che, al di là di fare un torto alle italiane paragonandole a dei pacchi postali, dà l’idea che l’altro sia lo stupratore seriale che vuole possedere fisicamente i beni degli italiani. Che in realtà è quello che hanno fatto gli italiani in colonia.
Come si collega la storia di Giorgio Marincola alla storia del colonialismo italiano?
La storia di Marincola è la storia di migliaia di uomini e di donne che nascono e crescono all’interno degli ingranaggi della mentalità coloniale. Marincola è frutto dell’unione tra un soldato italiano e una donna somala. Questo soldato italiano decide di riconoscere il figlio – molti non lo fanno – e se lo porta a casa, abbandonando la madre in colonia. Giorgio vive la vita del colonizzato riportato in madrepatria, con tutte le difficoltà di un ventennio fascista che punta sulla razza. Lui però fa una cosa incredibile: dimostra che i lacci della razza così definiti non sono assolutamente necessari per la costruzione di una coscienza di sé. Fa una battaglia di civiltà per una “nuova Italia”, e questo se ci pensiamo è un bellissimo paradosso. Lui combatte per un’Italia nuova quando l’Italia vecchia lo ha sempre relegato in una parte minoritaria e inferiore dell’italianità. Lui combatte per un’Italia nuova, libera, in cui la gente come lui possa avere diritto alla cittadinanza. Un paradosso perché ancora oggi purtroppo non è così nel nostro Paese, benché Marincola e persone come lui muoiano per tentare di costruire quest’Italia.
A che punto siete con l’intitolazione di una via a Trento a Giorgio Marincola?
A buon punto, pare. Dobbiamo registrare con felicità, insieme ad Alberto Maria Baggio e a chi del Café de la Paix si è impegnato in questo, che molti sono favorevoli a questa proposta. Si è capita la grandezza, anche nelle istituzioni e nell’amministrazione comunale, della persona di Giorgio e anche del significato della sua vicenda umana per una Trento plurale e solidale come quella che vogliamo costruire. Siamo in questo momento alla fase più complessa, e cioè quella del vincere i lacci dell’amministrazione. Siamo al momento fattivo in cui bisogna riuscire a trovare un luogo adatto e a fare tutti i passaggi amministrativi – che non sono pochi – per cercare di intitolare una via. Però direi che sono molto più fiducioso rispetto a un anno fa della possibilità che a Trento venga ricordato, come è giusto che sia, uno dei grandi partigiani trentini della nostra guerra civile ’43-’45.
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