Ripartire dal “borgo” attraverso le canoniche per le famiglie

Una delle canoniche trentine valorizzate nell’accoglienza

L’arcivescovo Giancarlo Bregantini (ora a Campobasso dopo essere stato vescovo di Locri e aver riscattato il lavoro dei giovani dalla gabbia del malaffare) è nato a Denno in Val di Non. Conosce il territorio creato e la terra del lavoro faticato. Ne conosce le difficoltà e la sacralità, con la solidarietà necessaria ad abitarlo. Sa quindi cos’è l’ “insieme” di un paese – cosa occorre per farne una comunità – premessa indispensabile per quel “camminare insieme ”che si propone il cammino sinodale al via in questa domenica.

Anche l’arcivescovo Tisi lo sa. Proviene da una valle vicina, la Rendena, da un paese di emigrazione. Anche per seguire le strade del mondo occorre fare comunità e i “moléta” lo sapevano bene. “Sinodo” significa, appunto, “camminare insieme”, ma per farlo – verso una meta cristiana e civile – occorre saper “vivere insieme”. Cosa non facile e non scontata, come le cronache di questi giorni confermano. Camminare insieme non è assembrarsi, né solo confrontarsi. Il Sinodo, come ha detto il Papa domenica in San Pietro, non è un parlamento.

Ecco allora dove soccorrono le parole di Bregantini (“La ‘terra alleata’ viene messa al centro del territorio, l’obiettivo è la Pastorale Rurale“), che ha appena concluso un suo sinodo diocesano, quasi una bussola per orientare chi, nel suo cammino, trova paesi sempre più svuotati di presenze d’amore, sempre più pieni di solitudini. Anche questa è povertà.

Ripartire dal paese, quindi, che è l’incrocio delle strade che ognuno percorre, il luogo dove ci si ritrova per proseguire insieme. Ripartire dal “borgo”, come lo chiama Bregantini, e dalle parrocchie-comunità che lo formano. Le parrocchie non sono casuali, non sono nate per essere unità amministrative, sono comunità cresciute e motivate negli anni per il mutare delle esigenze sociali e spirituali, oltre che per sostenere presenze e opere. Sono depositi di preghiera e di storia. In questa prospettiva le parrocchie devono tornare ad essere presidiate e amate più che gestite da sacerdoti sovraccarichi di mansioni, costretti a fare i pendolari, con inevitabile usura nel fisico e nel morale.

D’altra parte la parrocchia, nel Trentino, è dotata di una residenza, la canonica, funzionale e aperta all’ospitalità, ma troppe volte ormai vuota, accanto alle chiese serrate, non per il virus, ma perché non c’è nessuno che le apra. È un patrimonio, un “talento” non solo edilizio, che si sta dissipando. E allora è proprio dal “borgo” che occorre ripartire e dai quattro pilastri che lo sostengono – come dice Bregantini – e ne fanno quasi un tempio d’accoglienza: la terra, il lavoro, le famiglie, il sostegno ai “minimi, ai bisognosi da qualsiasi parte provengano.

Limitarsi a unificarle, come s’è fatto a Riva del Garda, pare una scorciatoia, probabilmente perdente. Vanifica il senso di appartenenza, disperde fedeli e cittadini invece di riunirli. Per riportare le tante strade della modernità al crocevia sinodale occorre una nuova dimensione pastorale e il Trentino ha tutti gli elementi (di innovazione e tradizione, di sacerdoti aperti, “amici” e non clericali) per proporla come laboratorio di nuove presenze e servizi, preparando persone e famiglie adeguate al nuovo servizio.

Esempi di simili realtà, negli ultimi anni, ve ne sono stati, e basterebbe citare Sant’Antonio di Mavignola, le piccole frazioni di Santa Giuliana e Barco in Valsugana, i Bertoniani, con i sacerdoti, anche anziani, che si sostenevano e si completavano a vicenda, con i laici (i sacrestani, così poco riconosciuti) e presenze per lo più femminili, come quelle che accoglievano San Paolo nei suoi viaggi di illuminazione e conversione. La casa parrocchiale può essere affidata a famiglie giovani, che hanno difficoltà a pagare un affitto, o a immigrati disponibili … tenere aperta la chiesa, ascoltare, indirizzare a un sacerdote, dire insieme una preghiera la sera … non è mica poco.

Sarebbe questa anche l’occasione perché i “movimenti” – profetiche testimonianze del “camminare insieme” in una società di massa dispersa e lacerata – uscissero da un certo loro isolamento, non si concentrassero solo sui grandi progetti, ma tornassero ad accendere focolari di comunione lì dove si sono spenti, al servizio di tutta la Chiesa. E i sacerdoti allora possono ben presidiare le “zone pastorali” (anche se il termine è brutto e irrimediabilmente burocratico) così come un tempo le Pievi, dove il popolo si recava, dai luoghi delle devozioni alle celebrazioni. Accendere focolari, servire la comunità.

Come ci diceva alcuni anni fa un vecchio frate cappuccino, ripetendo ciò che gli raccontavano i saggi del suo villaggio di missione, “con il peccato l’uomo è caduto dalla montagna di Dio, deve ricostruirla”. Non risalirla. Ricostruirla.

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