La situazione che si è determinata con la sceneggiata Trump-Zelensky nello Studio Ovale si riverbera inevitabilmente sulla politica italiana: un po’ per il ruolo che la nostra premier rivendica per sé nel consesso internazionale, un po’ per l’inveterata abitudine dei nostri partiti e movimenti a produrre appelli e prese di posizione astratte.
Al centro di tutto c’è la domanda se davvero il nostro Paese possa giocare un ruolo se non determinante almeno di rilievo in un momento tanto delicato. Rispondere in maniera motivata non è semplice. Indubbiamente fino a qualche tempo fa Giorgia Meloni si era guadagnata una posizione significativa nel contesto europeo. Aveva approfittato con intelligenza dell’indebolirsi delle posizioni di Francia e Germania ed aveva schierato l’Italia con decisione sul fronte dell’Occidente che si oppone al neo imperialismo russo. A margine di questo quadro aveva avuto l’avventura di stabilire una relazione particolare con la nuova amministrazione statunitense, propiziata dalla volontà di Washington di stabilire buoni rapporti con i governi europei orientati a destra.
La situazione si è modificata in questi ultimi giorni. Trump sembra aver deciso di rompere con il mantenimento del fronte occidentale come argine al neo imperialismo russo nella convinzione di potersi accordare con Putin per un ritorno ad accordi basati sulla reciproca garanzia di sfere d’influenza (cosa che lascerebbe l’Ucraina, ben che vada, in una situazione di vassallaggio verso Mosca). In Europa il quadro si è modificato. È entrata in campo la Gran Bretagna, che sembra poter esercitare non solo un ruolo di leadership nella ricostruzione del fronte occidentale, ma che ha già una funzione di “ponte” con la presidenza USA, essendo questa apparentemente disposta a riconoscerle quel ruolo (Trump e i suoi non hanno attaccato Starmer e le sue iniziative).
La Germania sta trovando forse una nuova stabilità. Certo la formazione del governo dopo il risultato delle elezioni non è ancora definita, ma il quasi certo nuovo cancelliere Merz si rivela per ora capace di una leadership decisa, assai diversa dai tentennamenti di Scholz. Macron rimane un presidente in difficoltà nel suo Paese, ma grazie ai poteri che gli conferisce la Costituzione francese è comunque il vertice della politica estera e di difesa, e lo fa dalla posizione di chi guida un paese che è una potenza nucleare nonché membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Così lo spazio di manovra per Giorgia Meloni si è ristretto, anche se non si è affatto annullato. C’è da tenere insieme la UE e qui per la premier italiana ci sono degli spazi, che al momento sembra le riconoscano sia Starmer, che Merz, che Macron. Certamente è necessaria una conduzione della nostra presenza senza illusioni di eccessivo protagonismo. Tutto è molto delicato, il lettore lo avrà compreso dall’eccesso di “sembra” che trova in questo articolo, ma la situazione è talmente mobile che non si riescono a capire le traiettorie su cui può svilupparsi l’evoluzione del quadro internazionale.
Certamente il nostro Paese paga il prezzo di un sistema politico poco coeso e sostanzialmente refrattario a fare squadra rinunciando alle schermaglie di fazione. Ce lo si poteva aspettare da un personaggio come Salvini le cui capacità di capire cosa succede nella politica internazionale non hanno mai brillato. Il ministro degli Esteri Tajani ha, grazie anche allo staff di qualità di cui dispone la Farnesina, una visione abbastanza realistica delle nostre possibilità, ma è frenato dall’esigenza di tenere insieme la maggioranza. Qui entra in gioco l’opposizione. Salvini trae forza dal fatto che tanto i Cinque Stelle, quanto una parte del PD, per non parlare di AVS, seguono una deriva pseudo pacifista, retaggio di vecchie posture delle sinistre di vario conio e ciò sostiene di fatto lo spazio del leader leghista.
Questo ha spinto la segretaria Schlein nella più classica delle trappole in cui può cadere quel “campo”: la politica del “né, né”. Si ricorderà la scelta infelice dei socialisti all’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale col motto “né aderire, né sabotare”, che li portò a finire bloccati in tutte le capacità di azione. Ora la segretaria del PD si è inventata (o le hanno suggerito) la formula del né col finto pacifismo di Trump, né con la UE guerrafondaia. Una soluzione balorda che liscia il pelo ai tradizionali istinti antiamericani e alle utopie pacifiste, ma che alla fine inchioderà il maggior partito di opposizione al ruolo di chi non avrà avuto nessun ruolo in un momento decisivo per la storia del mondo.