La speranza non va addomesticata

La domanda sulla speranza emerge sempre prepotente nei momenti difficili. Non è un caso che l’opera più famosa del filosofo marxista Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza), sia stata concepita durante il tempo drammatico dei totalitarismi del Novecento. E non è un caso che si apra con domande universali: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla e non sanno perché e per cosa. […] Ma ora, messi da parte gli artefici della paura, è tempo di un sentimento più degno. L’importante è imparare a sperare».

Mi impressiona sempre questo richiamo alla necessità di “imparare” un “sentimento più degno”. La speranza si impara, dice Bloch, e comporta la scelta impegnativa di non rimanere appiattiti nell’angoscia: «lo sperare, superiore al temere, non è passivo come questo, né rinchiuso dentro un nulla. L’affetto dello sperare esce fuori di sé, allarga gli uomini, invece di restringerli, non ne sa mai abbastanza di quel che internamente li rende tesi a uno scopo, di quel che esternamente può esser loro alleato».

Bloch contesta così la tentazione di considerare la realtà dei fatti come qualcosa di immutabile, di piegarsi alla rassegnazione, di considerare la storia umana come una sequenza di eventi sempre uguali a se stessi: contro il «feticismo dei nudi fatti», egli afferma che il futuro rappresenta «la qualità dell’essere». Nelle sue parole c’è la ribellione contro i cinici e contro coloro che rimangono inattivi perché ritengono che agire per contrastare il male sia inutile.

La prospettiva di Bloch rimane rigorosamente all’interno della storia: ma è proprio questo che rende universale la tensione della speranza, perché secondo Bloch essa riguarda le donne e gli uomini che in ogni tempo non vogliono condurre «una vita da cani» e si impegnano ostinatamente per l’affermazione del bene. In dialogo con Ernst Bloch si pose allora il teologo evangelico Jürgen Moltmann, più giovane di Bloch di quarant’anni (Bloch era del 1885, Moltmann del 1926). Egli riconobbe all’anziano filosofo di origine ebraica il merito di aver messo l’accento su una dimensione fondamentale per gli stessi cristiani, i quali non hanno «da servire l’umanità affinché il mondo rimanga quello che è, o possa essere conservato nello stato in cui si trova, ma affinché si trasformi e diventi ciò che è promesso che diventerà. Perciò “chiesa per il mondo” non può significare altro che “chiesa per il Regno di Dio” e per il rinnovamento del mondo ».

Certo, Moltmann come Bloch è consapevole che le speranze umane possono andare deluse; tuttavia – scrive nelle ultime righe della sua Teologia della speranza – la speranza cristiana è «una forza motrice della storia a favore delle utopie creative dell’amore per l’uomo sofferente e per il suo mondo imperfetto, muovendosi verso il futuro sconosciuto, ma promesso, di Dio».

Cinquant’anni dopo, quel dialogo fra un filosofo e un teologo sulla speranza rimane di bruciante attualità, perché la più grande tentazione del nostro tempo mi sembra sia quella della riduzione delle attese: piccole speranze addomesticate hanno sostituito gli orizzonti ampi della trasformazione del mondo di cui parlano Bloch e Moltmann con gli asfittici confini del proprio destino personale immediato. È come se in un tempo minacciato prevalessero i sogni di basso cabotaggio per tenere a bada le possibili delusioni (se non si spera nulla, magari ci si illude di non sperimentare il fallimento…) e la privatizzazione delle attese avesse preso il posto della dimensione collettiva che la speranza porta con sé. In questo modo non solo si rinuncia a «iniettare nel mondo continue dosi di speranza» (Fries), ma si rinuncia a farsi carico responsabilmente del futuro dell’umanità.

Nel 1977, in un tempo non meno drammatico di quello in cui viviamo oggi, Aldo Moro scriveva: «Il bene, anche restando come sbiadito nello sfondo, è più consistente che non appaia, più consistente del male che lo contraddice. La vita si svolge in quanto il male risulta in effetti marginale e lascia intatta la straordinaria ricchezza dei valori di accettazione, di tolleranza, di senso del dovere, di dedizione, di simpatia, di solidarietà, di consenso che reggono il mondo, bilanciando vittoriosamente le spinte distruttive di ingiuste contestazioni […]. E tuttavia si insinua così il dubbio che non solo il male sia presente, ma che domini il mondo. Un dubbio che infiacchisce quelle energie morali e politiche che si indirizzano fiduciosamente, pur con una difficile base di partenza, alla redenzione dell’uomo. Una più equilibrata visione della realtà, della realtà vera, è non solo e non tanto rasserenante, ma anche stimolante all’adempimento di quei doveri di rinnovamento interiore e di adeguamento sociale che costituiscono il nostro compito nel mondo». Da qui si deve partire per essere oggi donne e uomini che contrastano la privatizzazione cinica della speranza: dalla certezza che «il bene è più consistente del male che lo contraddice».

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