La “normalità” di Prijedor

La cittadina della Repubblica Srpska fa parte della Bosnia Erzegovina, ma sono forti le spinte secessioniste

Mai e poi mai dopo il delirio hitleriano si poteva pensare di ritrovarsi, nel cuore d’Europa, davanti all’apertura di nuovi campi di concentramento. È successo in Bosnia nord occidentale, a Prijedor, e non solo, poco più di trent’anni fa, durante una delle guerre che hanno dissolto la Jugoslavia. Con una differenza, rispetto ai lager nazisti: gli aguzzini (serbi) spesso erano vicini di casa delle vittime (in massima parte musulmani e croati).

Simone Malavolti, storico dei paesi jugoslavi e dei Balcani occidentali, lo racconta, insieme a molto altro, grazie a una documentazione minuziosa e spesso inedita, frutto anche del lavoro sul campo, in “Nazionalismi e ‘pulizia etnica’ in Bosnia Erzegovina. Prijedor (1990-1995)”, pubblicato da Pacini Editore con la collaborazione della Fondazione Museo storico del Trentino. L’autore presenterà il libro venerdì 21 febbraio a Trento, all’Officina dell’Autonomia di via Tomaso Gar, alle ore 18. Interverranno anche Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico, Annalisa Tomasi dell’associazione Progetto Prijedor, Marco Abram dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa e Michele Nardelli, già presidente del Forum trentino per la pace e i diritti umani.

Prijedor, gemellata con Trento, era una città di poco più di 100 mila abitanti dove vivevano musulmani, serbi, croati ma che, per la sua posizione geografica, interrompeva quell’omogeneità territoriale serba che da lì a poco si sarebbe costituita in Repubblica (a gennaio del 1992) e che con gli accordi di Dayton del 1995 sarebbe entrata a far parte (tuttora, nonostante la spinte secessioniste) della Bosnia Erzegovina insieme alla Federazione croato musulmana, sancendo istituzionalmente la divisione etnica frutto del conflitto in tutto il Paese. Da una parte e dell’altra il nazionalismo era fomentato da partiti costituitisi con una predominante impronta etnica a scapito di quelli civici.

Lo scoppio del conflitto, a Prijedor come altrove, era solo questione di tempo. La stampa locale soffiava sul fuoco. Sulle ceneri di una Jugoslavia in bancarotta che perdeva pezzi uno dopo l’altro al prezzo di migliaia di morti. Il 30 aprile 1992 Prijedor era sotto occupazione serba. Un mese dopo i cittadini non serbi furono costretti a mettersi al braccio una fascia bianca e ad esporre al balcone di casa un lenzuolo per far sapere dove abitavano. I quattro campi di concentramento cittadini erano stati aperti. La violenza fu pianificata e di massa, ma anche “occasionale”, tra singoli.

“Dopo Srebrenica – scrive Malavolti –, Prijedor è la municipalità che, complessivamente, ha avuto la maggior parte di vittime civili (3819, poco più di mille i militari)”. L’ordine di grandezza è questo, anche se altre fonti riportano numeri diversi.

“Oggi Prijedor è una città apparentemente normale – riflette Nardelli –, ma ancora avvolta nei propri fantasmi. Il tempo e il silenzio non aiutano affatto la riconciliazione”. “Prijedor – aggiunge Malavolti – è una città intrinsecamente divisa da un conflitto di memorie diverse e contrapposte”.

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