Chi ha gioito per la sentenza di assoluzione del primario di ginecologia Saverio Tateo e della collega Liliana Mereu, venerdì scorso nell’aula del Tribunale di Trento, non ha forse riflettuto abbastanza sulla sofferenza dei parenti di Sara Pedri, la dottoressa trentunenne scomparsa dal 3 marzo 2021, dopo aver dato le dimissioni da quel reparto nel quale diceva di aver vissuto un profondo disagio.
Prima di commentare la sentenza, si deve leggerne le motivazioni. Eppure, l’impatto culturale che la vicenda legata a Sara ha avuto nella nostra opinione pubblica – dopo l’indagine dell’Azienda Provinciale dei Servizi Sanitari con il licenziamento del primario (poi annullato dal Giudice del lavoro Flaim) ci induce ad alcune sottolineature, forse utili per i lettori. Sono tanti quelli che, conoscendo le testimonianze rese da colleghe e colleghi di Sara (undici le parti civili presentatesi al processo, compresa l’APSS), si dicono perplessi di fronte alla formula di assoluzione: “perché il fatto non sussiste”.
Nell’attesa di conoscere i riferimenti normativi che hanno determinato la valutazione del giudice Marco Tamburrino, alcuni commentatori osservano che egli non ha probabilmente ritrovato nel comportamento dei due imputati tutti gli elementi richiesti dal codice penale per definire il reato di maltrattamento. Come, ad esempio, le lesioni personali o la violenza privata: va detto peraltro che qui il giudizio dovrebbe tener conto anche delle violenze psicologiche (con minacce o ricatti verbali) e non solo di quelle fisiche. È emerso con evidenza che nel nostro codice penale (ancora datato rispetto ai rapporti in ambienti professionali) non si parla ancora di mobbing – il termine mediatico che racchiude le pratiche vessatorie e persecutorie di un datore di lavoro o un collega nei confronti di altri “mobbizzati”, appunto – e che in questa sorta di nebulosa giuridica non è stato possibile evidentemente collocare i comportamenti di “un ambiente tossico” che le 21 parti offese avevano descritto nelle loro testimonianze. Ci si chiede anche per quale motivo il giudice non abbia applicato agli ambienti di lavoro quanto previsto per i maltrattamenti in famiglia all’articolo 572 del codice penale, dal momento che come ormai molta giurisprudenza rileva – presupposto di tale reato non è infatti solo la famiglia in senso stretto, ma qualsiasi rapporto tra soggetti diversi, caratterizzato dall’esercizio del potere autoritario di uno sull’altro. In un reparto di ospedale, con rapporti di subordinazione e situazioni di soggezione, si viene a creare una sorta di familiarità che qui non è stata ritenuta tale. A questi dubbi va aggiunto un motivo di sconcerto che sembra esca rafforzato da questo primo grado di processo: il forte disagio che si viveva all’interno del reparto di Ginecologia e Ostetricia del Santa Chiara non doveva trascinarsi così a lungo con le numerose “fughe” di medici che l’Azienda Sanitaria ha sottovalutato finché, a partire dal 2019, non sono state mosse interrogazioni da parte di amministratori provinciali. C’è stato un grave ritardo nel fare luce sullo stile molto teso nelle relazioni interne al reparto, forse per il fatto che esso si era reso attrattivo anche fuori provincia, forse per il prestigio tecnico-professionale di Tateo. Ma le voci interne di “ricatti” e “vendette “ hanno descritto un comportamento “di tipo baronale” che in aula è stato avvicinato a quanto avviene purtroppo spesso in altri ambiti accademici e universitari. Ma se gli operatori sanitari vanno in corsia in stato di stress o di soggezione, a risentirne sono prima o poi anche i pazienti (ci piace ricordarlo alla vigilia della Giornata mondiale del malato). Anche per questo la vigilanza su relazioni corrette non può venir meno, l’allarme rimane alto e chi vede soprusi è tenuto a segnalarli in tempo, per il bene di tutti.