Löwy: quell’ebreo a Moena, una pagina di pace

La famiglia Löwy in val di Fassa con la maestra Valeria e il daziere (foto dal libro di Giorgio Jellici “Un ebreo a Moena”)

Lo spunto

MOENA – La pietra d’inciampo è stata posizionata a Someda, davanti alla casa dove Richard Löwy venne arrestato il 4 gennaio del 1944 dai nazisti, per essere poi rinchiuso nel carcere di Trento. Internato a Fossoli, venne poi deportato ad Auschwitz il 22 febbraio dello stesso anno: non farà più ritorno, vittima dell’Olocausto come milioni di ebrei.

l’Adige, 29 gennaio 2025

La notizia della posa di una “pietra d’inciampo” a Moena a ricordo di Richard Löwy, ingegnere e ufficiale austriaco ebreo che qui aveva trovato ospitalità e rifugio, merita un’integrazione proprio perché la memoria di quella giornata risulti completa. Va ricordato che tutta la vicenda – e la consapevolezza profonda che ha potuto suscitare nella popolazione ladina e oltre, tanto da provocare l’iniziativa dei ragazzi delle Scuole Medie e la meritevole mobilitazione del Comune di Moena – è nata grazie alla ricerca appassionata e profonda condotta proprio da un cittadino di Moena, Giorgio Jellici, che per anni su Löwy ha raccolto una documentazione vasta e precisa negli archivi di mezza Europa. L’ha pubblicata poi in un libro che ha avuto una risonanza nazionale ed europea perché è andato al di là del destino personale del Löwy (dopo l’arresto venne internato ad Auschwitz e non se ne seppe più nulla o, meglio, c’è la certezza che se vi arrivò vivo ne uscì solo “dal camino”, come crudamente ma consapevolmente dicevano gli stessi prigionieri del campo) e invece ha affrontato tutta la complessità della presenza ebraica nel XX secolo nella Mitteleuropa, mettendo in luce la ricchezza di umanità (oltre che d’arte e di scienza) che essa aveva radicato e diffuso. Per questo l’olocausto è stato non solo il sacrificio di un popolo, ma un suicidio europeo. Richard Löwy, ebreo di famiglia boema, viennese per educazione e cultura, ingegnere e ufficiale del genio nell’impero asburgico, fu a Moena negli anni della Grande Guerra 1914-18, la Gran Vera, come si dice in ladino. Aveva la responsabilità di comando su tutta la linea di fortificazioni del fronte Marmolada – Lagorai con l’Italia, uno dei più delicati ed aspri, e basta ricordare un nome, quello del Cauriol. Ufficiale nelle truppe austroungariche che presidiavano e occupavano le valli di Fiemme e Fassa fece il suo dovere, tanto da ottenere due “medaglie al merito”, ma al tempo stesso lasciò una profonda traccia di sé nella popolazione civile, impiegando tanti giovani in lavori di difesa militare, evitando loro di arruolarsi e di finire vittime nei massacri del fronte orientale (Galizia e Carpazi). Fu anche particolarmente attento a procurare lavoro alle donne che così potevano portare a casa qualche risorsa di sostentamento. (Venne dalla fame, più ancora che dalle armi – ricordavano i superstiti – il grande incubo della Prima guerra mondiale). Moena riconobbe questi meriti e gli diede la cittadinanza onoraria.

Löwy si stabilì a Vienna, ma ogni eredità asburgica s’era dissolta, mentre l’Italia, cui Fiemme era stata unita con il Trentino, non tenne fede alle sue promesse di riscatto e rinnovamento per questa terra e ben presto si impose col fascismo, mentre la Germania sempre più cedeva ai proclami nazional socialisti dell’austriaco Hitler. L’antiebraismo cementava le due dittature, anche se parve che al momento dell’Anschluss, l’occupazione germanica dell’Austria nel 1938 Mussolini sapesse reagire alle mire tedesche. Fu proprio in seguito all’Anschluss che i Löwy, (Richard si era nel frattempo sposato con una farmacista) decisero di lasciare l’Austria dove le persecuzioni e le umiliazioni contro gli ebrei erano ormai quotidiane e trovare asilo in Italia, a Moena, che egli ricordava per l’ospitalità della sua gente e dove contava famiglie amiche.

Fra queste quella degli Jellici Garbér che aveva nella maestra Valeria, insegnante “storica” nelle scuole del paese e in suo fratello Carlo, divenuto direttore della Cassa Rurale di Pergine, i suoi esponenti più radicati e appassionati. I Löwy,vennero aiutati a sistemarsi, furono accolti bene dal paese, dalla sua gente, nel negozio della cooperativa, ma i tempi precipitarono. Mussolini si allineò sempre più a Hitler, uscirono le leggi razziali e i Löwy furono internati dal fascismo nei campi di Petrella Tifernina e Notaresco nel sud Italia. Poi riuscirono a ottenere la residenza coatta, invece della prigionia, e fecero ritorno a Moena , ma quando dopo l’8 settembre 1943 Hitler occupò il Trentino e l’Alto Adige facendone con il Bellunese l’Alpenvorland, direttamente soggetto al Reich, non ci furono più speranze fino all’epilogo del 4 gennaio 1944. È questa la storia che Giorgio Jellici, moenese, manager in Germania e in altre capitali europee, ha ricostruito, sulla base di lettere e cartoline dei Löwy, accolte in una scatola di scarpe e consegnatagli dalla Zia Valeria all’atto della sua morte. Lungo queste cartoline, e poi documenti ed attestati, Jellici è risalito dalla “Gran Vera alla Shoa” raccontandola poi nel libro “Un ebreo a Moena”, pubblicato nel 2004 dall’Istituto culturale ladino diretto da Fabio Chiocchetti che fu d’aiuto all’autore (Jellici lo riconosce sempre) nelle sue ricerche in Boemia nei luoghi della famiglia Löwy, negli archivi di Stato di Vienna, Praga, Berlino, Roma, Innsbruck. Commenta Giorgio Jellici: “ Sì, le ricerche in mezza Europa le ho iniziate perché da mia zia Valeria, amica dei Löwy, ricevetti un pacco di lettere e di documenti e di foto e di attestati che poi riprodussi in parte nel libro e poi più ampiamente nella mostra”.

L’apprezzata esposizione è stata allestita a Moena, al Museo ebraico di Venezia, a Rovereto, Pergine Valsugana, Vigo di Fassa e Trento, dove la visitò anche Mario Rigoni Stern. Sono tappe da ricordare perché la storia di “quell’ ebreo a Moena” (titolo del libro di Jellici) non è solo una pagina crudele dell’Olocausto che ha macchiato i nostri paesi, ma riscatta anche le popolazioni travolte dalla guerra, la loro ospitalità, il loro anelito verso la pace. Ci fu certo chi tacque, ma ci fu anche chi volle seguire umanità e giustizia: ricostruire e ricordare serve a questo. Questo è il messaggio che viene dal libro di Giorgio Jellici e dalla ricerca dei ragazzi delle Scuole Medie di Moena, nella speranza che la storia non debba sempre “inciampare” nella violenza.

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