Autonomia differenziata, la parola alla Corte

La prima pagina del quotidiano “Il Gazzettino” di martedì 21 gennaio

È arrivato il verdetto della Corte Costituzionale: il referendum sulla legge Calderoli non s’ha da fare. Una decisione difficilmente contestabile in punto di diritto a meno di non farsi travolgere da pregiudizi e preconcetti. La sostanza è che il quesito sopravvissuto mirava semplicemente a cancellare la legittimità del sistema di autonomie differenziate, il che non è possibile perché abolirebbe non semplicemente la riforma Calderoli, ma surrettiziamente un articolo della Costituzione che tale istituto prevede.

Non sappiamo quanto il pubblico riuscirà a comprendere questa complicata faccenda. Giustamente la Consulta ha in definitiva fatto presente che se si vuole abolire quanto stabilito con la riforma costituzionale del 2001, promossa, lo si ricordi, da un governo di centrosinistra nel tentativo di limitare la presa della Lega, si deve procedere con un referendum costituzionale ad hoc e non per vie traverse. Questo spiega perché tutto sommato la Lega, almeno nei suoi esponenti più capaci, ha salutato positivamente la decisione della Corte.

Infatti, restando aperto l’impianto che permette lo sviluppo di autonomie regionali differenziate si può continuare a procedere sulla via di metterle in essere. Certo lo si dovrà fare con i limiti posti dalla stessa Consulta che ha smontato le rodomontate para-federaliste presenti nella legge Calderoli ed ha ridato centralità al Parlamento, sottraendo il processo della devoluzione di compiti alle regioni dal pericoloso circuito autoreferenziale limitato al confronto governo centrale-governo regionale. Ma un riordino di certe funzioni e competenze sarà possibile e questo è ciò che davvero interessa a quei governanti che conoscono il loro mestiere: le norme bandierina servono solo a far scena.

Politicamente la decisione dei giudici costituzionali risparmia al paese l’ennesima guerra stile guelfi contro ghibellini: nel delicato momento presente non c’è proprio bisogno di scontri furiosi a base di opposte demagogie. Certo ci guadagna di più il governo, specie la premier, che non l’opposizione: sul primo versante ci si risparmia di dover dare spazio ai populismi leghisti con il più che concreto rischio di vedersi delegittimati da un risultato non favorevole, possibile visto anche la scarsa simpatia che la legge Calderoli riscuote al Centro-Sud; sul secondo versante l’opposizione si vede privata dell’arma della agitazione altrettanto populista della denuncia di chi vuole disgregare lo stato, una agitazione che metteva insieme tutte le componenti del fu campo largo, felici di assemblarsi su un tema facile da propagandare, quanto fumoso nei contenuti.

Si potrebbe dire che adesso verrà il bello (si fa per dire) perché la riscrittura della legge Calderoli è necessaria e passa per il confronto parlamentare nelle sue articolazioni. Entrando nel merito delle questioni mantenere la coesione sia della maggioranza che dell’opposizione sarà una faccenda ardua da gestire, perché entreranno in campo tutti i regionalismi e tutte le clientele che attraversano ogni partito presente sulla scena. Se dovessimo azzardare un pronostico, diremmo che di riscrittura della riforma Calderoli non si parlerà per un bel po’ di tempo, salvo usare l’argomento nelle polemiche di partito per la redistribuzione di qualche ruolo (vedi questioni come il terzo mandato dei governatori, la formazione dei gruppi dirigenti, ecc.).

Anche se al momento se ne parla poco restano in campo quattro referendum: tre seguono le impuntature radicaloidi di Landini&Co. (sono quelli che riguardano il cosiddetto Jobs Act renziano), il quarto una questione ben più seria che è una revisione delle normative per la concezione della cittadinanza italiana. Su tutti pende la spada di Damocle del quorum: se non vota il 50%+1 degli aventi diritto il risultato del referendum non avrà valore. Il quorum è molto difficile da raggiungere per cui esiste una diffusa convinzione che tutto finirà nel nulla.

Non è una bella prospettiva per due ragioni. La prima riguarda il referendum sulla cittadinanza che è uno dei pochi mezzi disponibili per intervenire su un sistema obsoleto e inadatto a governare la realtà attuale delle migrazioni. La seconda riguarda i referendum sul Jobs Act, perché comunque vada creeranno un turbamento nel mondo del lavoro in una fase difficile per il sistema economico proprio nei settori dove la riforma di Renzi ha avuto una sua attuazione. Di scontro sociale proprio non c’è bisogno, soprattutto se, come in questo caso, è arduo sostenere che una eventuale vittoria dei promotori porterebbe qualche reale vantaggio al mondo del lavoro, cambiato in maniera notevole da quello a cui si riferiva lo Statuto dei Lavoratori.

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