La visita di Meloni a Trump, un bel colpo di teatro

La prima pagina di Avvenire di martedì 7 gennaio

Come era prevedibile il colpo di teatro di Giorgia Meloni in visita a Trump è al centro delle analisi sino a trasformarle non di rado in elucubrazioni a favore delle tesi sostenute da chi interviene nei media. Sarebbe più interessante provare a capire la posizione per così dire “geografica” della premier italiana, che sarà per lei non semplice da gestire. Molti hanno scritto che il nuovo presidente americano punta su Meloni per rafforzare la sua strategia di disgregazione della UE. Ci pare prematuro e banalizzante mettere tutto in questi termini e soprattutto c’è da chiedersi quanto alla premier italiana converrebbe prestarsi a questa eventuale strategia (la nuova amministrazione non farà solo propaganda).

Innanzitutto crediamo sarebbe opportuno distinguere due componenti nella eventuale azione disgregatrice di Trump: la prima, economica, punta a favorire una preminenza del commercio americano con una politica contemporaneamente di dazi sui prodotti europei di importazione e di ricatti ai paesi UE perché “comprino americano”; la seconda, politica, deve tener conto che indebolire quel tanto di coesione europea che esiste significa lasciare spazio di espansione all’ideologia neoimperialista ed euroasiatica di Putin, non esattamente qualcosa che possa compiacere Trump. Ne discende che se a “the Donald” interessasse soprattutto disgregare l’Unione Europea, avrebbe a disposizione il più che volonteroso Orban. Peccato che l’autocrate di Budapest sia anche un filo russo, o più banalmente un filo Putin dichiarato e dunque una quinta colonna oggettiva dell’espansionismo di Mosca.

Non stiamo parlando di semplici sparate retoriche: la penetrazione del putinismo (che forse non rappresenta la Russia tout court) in Europa è ben visibile, non solo con la ripresa del suo richiamo sull’Est (vedi Ungheria, Slovacchia, Romania), ma anche con la penetrazione ad Ovest dove sono in varia misura simpatizzanti del nuovo zar l’AfD in Germania, il partito di estrema destra che sta per andare al potere in Austria, nonché Le Pen e Salvini, per citare solo i maggiori.

Meloni, almeno sino ad oggi, non fa parte di quella congrega. È atlantista, cerca di promuovere una politica mediterranea che non è sulla scia di Mosca, vuole occupare uno spazio sempre più significativo nella UE a guida von der Leyen. Sa bene che una parte notevole del suo successo è dovuta alla sua capacità di stare nel gioco della politica internazionale, il che significa, per una media potenza come l’Italia, sfruttare le posizioni che tradizionalmente il nostro Paese ricopre nel quadro della politica “occidentale”. Per lei sarebbe assai rischioso mettere in forse quanto ha acquisito per fare la stampella di Trump (che fra il resto non darebbe alcuna garanzia di tenersela ove pensasse di trovare pedine migliori) mettendosi in contrasto con gli equilibri interni alla UE, che, nonostante indubbie debolezze, rimane un buon sostegno alle nostre difficoltà economiche e sociali. La nostra premier sa bene che parte della sua forza attuale nel contesto europeo deriva dalla debolezza al momento di altri soggetti chiave come Francia e Germania, mentre sta crescendo il ruolo della Polonia per ovvie ragioni geostrategiche. Mettersi in rotta di collisione con tutti per appuntarsi al petto la medaglia di cartone di referente di Trump in Europa non le conviene: soprattutto perché puoi essere interessante per Washington se sei in posizione tale da incidere sulla politica della UE, cosa che non si può gestire facendo il bastian contrario ed essendo tenuto ai margini (ed è quello che rende Orban oggettivamente poco interessante per Trump, se non giocarlo come elemento di intralcio da scaricare al momento opportuno).

Giorgia Meloni deve dunque districarsi in questo complesso scenario essendo consapevole che la sua forza cresce quanto più la sua leadership si stabilizza: in Italia e di conseguenza a Bruxelles. Qui c’è un passaggio che sembra ostico da capire per la sua maggioranza: un sistema politico è stabile se l’opposizione ne fa parte, sia pure in maniera ovviamente dialettica. Se un sistema si regge sullo scontro sociale radicalizzato facendo leva per tutti i fronti in gioco (destre e sinistre) sulle paure della gente per il futuro (dei benestanti di perdere la propria posizione, degli svantaggiati di finire sempre peggio) non ci sarà stabilità e senza questa non si fa politica per il futuro: estera e interna vanno di pari passo.

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