Dodici mesi fa, in Palestina il Natale non si era festeggiato. Erano passati solo poco più di due mesi da quel tragico 7 ottobre e dall’attacco di Hamas e altri gruppi terroristici che aveva scatenato la sanguinosa rappresaglia militare israeliana. Così, con Gaza sotto i bombardamenti, le Chiese di tutta la Palestina decisero la cancellazione delle festività, limitando le attività del periodo alle preghiere. Oggi, triste cortocircuito della guerra, la situazione nella terra del primo Natale della storia è, se possibile, molto peggiore. L’offensiva israeliana su Gaza ha causato finora la morte di oltre 45mila persone, in larga parte donne e bambini, e negli altri territori palestinesi, tra cui anche la città di Betlemme, si vive costretti tra checkpoint e limitazioni. Una situazione sempre più complessa, come ha potuto constatare di persona Pier Francesco Pandolfi, presidente dell’associazione “Pace per Gerusalemme – Il Trentino e la Palestina”, appena rientrato dai territori palestinesi dove, assieme a una delegazione di agricoltori europei, ha incontrato autorità, organizzazioni, cooperative e gruppi che in quelle zone operano nel settore agricolo.
Pandolfi, che situazione avete trovato in Palestina?
Abbiamo riscontrato come negli ultimi mesi ci sia stata un’accelerazione e un aggravarsi drammatico delle politiche di occupazione da parte degli israeliani. C’è un numero mai visto prima di checkpoint e di cancelli che limitano il movimento di chi vive nei territori palestinesi: ogni città, ogni singolo villaggio o paese è chiuso da grandi sbarre di metallo montate su blocchi di cemento. Una situazione che ricorda sempre di più il Sudafrica dell’apartheid. Dopo il 7 ottobre, l’installazione di centinaia di nuovi checkpoint e cancelli è andata di pari passo con l’avanzata impressionante dell’occupazione delle terre da parte dei coloni illegali.
Avete potuto avvicinarvi anche alla Striscia di Gaza?
Gaza in questo momento è inavvicinabile, non vengono ammessi neppure i giornalisti o i soccorritori della Croce Rossa o delle Nazioni Unite. Noi siamo arrivati a una ventina di chilometri di distanza, a sud di Hebron, dove si potevano udire i bombardamenti, e abbiamo provato grande frustrazione e grande dolore all’idea di essere così vicini a un genocidio in corso, un massacro di quelle dimensioni, e non potevamo fare nulla.
Che testimonianze avete raccolto dalle persone che avete incontrato?
Il numero e la violenza degli attacchi dei coloni ha raggiunto livelli senza precedenti. A Gerusalemme Est abbiamo visitato sia il centro di Gerusalemme sia alcuni quartieri limitrofi, ormai circondati dagli insediamenti dei coloni, che insieme al muro di separazione stanno letteralmente mettendo sotto assedio i quartieri palestinesi, per isolare il più possibile alcune comunità, creando pressioni militari, economiche, ma anche psicologiche.
Come vengono messe in atto?
Le intimidazioni hanno effetti negativi su tutti gli aspetti e i diritti basilari della vita dei palestinesi: il diritto allo spostamento, quello alla salute, perché è sempre più difficile accedere agli ospedali, ma anche quello all’educazione dei bambini. Abbiamo visitato scuole, nella zona di Hebron, che molti studenti hanno dovuto abbandonare, perché il tragitto per arrivarci era diventato pericoloso, quindi o sono passati alla didattica a distanza o si sono spostati in istituti magari più sicuri ma molto più lontani da casa. Noi, durante gli incontri con le realtà dell’agricoltura, ci siamo trovati di fronte alle limitazioni dell’accesso all’acqua e alle risorse naturali, che colpiscono i produttori agricoli, i contadini, ma anche i pastori e i pescatori di Gaza. Le problematiche legate a chi lavora la terra e a chi produce cibo, in un conflitto, sono cruciali.
La popolazione come vive questa situazione?
C’è un clima di grande scoramento e di grande paura. Non c’è rassegnazione, ma molta rabbia e frustrazione, soprattutto nei confronti della comunità internazionale. Non c’è più fiducia nel diritto internazionale perché, alla luce del sole, si sta negando il diritto all’esistenza al popolo palestinese, in qualsiasi forma e in qualsiasi luogo della Palestina.
In che modo è possibile alimentare ancora la speranza in un’evoluzione positiva e in una soluzione pacifica del conflitto in corso?
Ci ha colpito vedere come i palestinesi continuino a coltivare la speranza, convinti nel fatto che in futuro potranno tornare ad avere accesso alle loro terre. Questo ha fatto riflettere anche noi, che avevamo il cuore infranto per aver toccato con mano ciò che sta succedendo: vedere che hanno più speranza loro di noi ci deve spronare anche nel nostro attivismo. Se la comunità internazionale non è in grado di prendere provvedimenti, dobbiamo essere noi, come cittadini, a cercare di porre un freno al sostegno dei governi occidentali verso Israele.
In che modo?
Alimentando campagne di boicottaggio e sanzioni, oppure con un aumento della solidarietà internazionalista dal basso, che può servire a fare da scudo di protezione ai palestinesi. La presenza dei volontari di Paesi occidentali durante la raccolta delle olive nei campi, nella ricostruzione delle case distrutte, durante l’accompagnamento dei bambini a scuola, nelle operazioni agricole, o nel pascolo delle greggi, può servire da deterrente alle intimidazioni. Anche questa è una tipologia di aiuto che in tanti ci hanno chiesto di rafforzare, perché è fondamentale.