Autonomia, la Corte chiede correzioni

La decisione della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata (L. n. 86/2024, la “legge Calderoli”) ha già scatenato vivaci e opposte reazioni politiche. La maggioranza si consola con la mancata censura dell’intera legge, che l’opposizione vede invece sonoramente bocciata per i profili di incostituzionalità rilevati. Entrambe hanno un po’ ragione e un po’ torto, in che misura conta poco; ciò che preoccupa è lo spuntar fuori dalla tana di due mostriciattoli, sempre in agguato nella caverna delle idee sommarie.

La Corte ha ritenuto non incostituzionale la legge nell’insieme, ma illegittime sette sue disposizioni, e cioè: il trasferimento alle regioni di “materie” anziché “specifiche funzioni”; la determinazione e l’aggiornamento dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni) con delega legislativa «priva di idonei criteri direttivi» o con Dpcm, limitando il ruolo del Parlamento; la modificabilità per decreto dell’entità del gettito tributario devoluto alle regioni; il contributo regionale, facoltativo anziché obbligatorio, agli obiettivi di finanza pubblica; l’estensione della legge agli statuti speciali. La sentenza condiziona poi altre disposizioni, fra cui il cruciale calcolo delle risorse.

I mostriciattoli. Il primo ipotizza non solo l’affossamento dell’autonomia differenziata, ma l’inutilità delle stesse regioni. «Fine dei giochi!» si è esclamato in Parlamento. Un rigurgito antiregionalista privo di senso. È la stessa sentenza a rimarcare l’importante ruolo delle autonomie regionali e delle loro particolari forme. La dottrina ne spiega i motivi. Allontanare il governo dai cittadini violerebbe i principi di sussidiarietà (non faccia il superiore ciò che può fare l’inferiore) e di differenziazione (si considerino le peculiarità dei territori) richiamati dall’art. 118 Cost.; inoltre, scrive il prof. Augusto Barbera, “la competizione economica a livello globale sempre più si svolge non fra imprese ma fra “sistemi territoriali di imprese”, ed essenziale è quindi il ruolo dei governi regionali nella infrastrutturazione del territorio, nella formazione professionale, nella organizzazione di servizi reali alle imprese e nel sostegno alle reti produttive” (Comm.ne Quagliariello per le riforme costituzionali, Rel. finale, 2013). Perciò la scelta di superare «sia il paralizzante centralismo statalista sia il localismo provincialista e municipalista» appare indiscutibile.

Il secondo mostriciattolo è una latente, ma altrettanto insensata ostilità contro le autonomie speciali. Queste, con il 15% della popolazione e il 25% del territorio italiani, nonostante le ampie competenze e i relativi effetti molto diversi, non hanno minato l’unità nazionale. Anche le regioni speciali, infatti, hanno potestà impositive, monetarie e regolatorie di prodotti e mercati molto limitate o nulle, rimanendo subordinate agli ordinamenti statale ed europeo, al pari delle ordinarie. Con queste ultime stride, semmai, il tema delle risorse, non il senso della specialità, riconosciuto dall’art. 116 Cost., che oggi elenca le cinque regioni speciali e stabilisce che “la Regione Trentino-Alto Adige/ Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano”, ribadendo la peculiarità del nostro modello istituzionale.

L’autonomia differenziata va dunque corretta, magari riscritta (perché, ad esempio, non fare un passo più coraggioso, eliminando la competenza concorrente, come prevedeva la riforma Renzi-Boschi?) per rafforzare, non per deprimere, l’istituzione regionale. Viva le regioni!

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