Sebbene siamo contrari al costume di trasformare ogni competizione elettorale amministrativa in un test per valutare lo stato di salute della politica nazionale, siamo consapevoli che esaminando gli eventi con un minimo di freddezza si possono cogliere indicazioni di tendenza valide anche a livello generale. È il caso della tornata di regionali d’autunno che ha riguardato Liguria, Emilia Romagna e Umbria. Tre situazioni diverse per storia pregressa e contingenze attuali, ma capaci di fornire elementi interessanti su quelle che potrebbero essere attualmente le tendenze dell’elettorato.
Mettiamo tra parentesi la questione dell’astensionismo che riguarda ormai almeno, se non più della metà degli aventi diritto: non che manchi di importanza, ma riguarda il difficile problema del distacco fra la partecipazione politica e la cittadinanza. Sarà importante farsene carico, ma ci vorrà molto tempo per risalire la china.
Ci concentriamo sulla questione dei partiti. Ricordiamo che ai tempi della cosiddetta prima repubblica il quadro della loro molteplicità irriducibile veniva spiegata con due fortunate formule. La prima, elaborata da Giorgio Galli, era il “bipartitismo imperfetto”: all’epoca sembrava che la perfezione fosse nei sistemi all’anglosassone con due grandi partiti che si dividevano il consenso, il che non avveniva in Italia. Galli spiegò che da un certo punto di vista era, per quanto in modo imperfetto, così anche da noi, perché contavano solo due grandi partiti, la DC e il PCI, il resto faceva più o meno da contorno. La seconda, elaborata da Giovanni Sartori, era il “pluralismo polarizzato”: il sistema era strutturalmente formato da un certo numero di partiti che non si lasciavano assorbire, ma alla fine si produceva una polarizzazione attorno a due perni che formavano la maggioranza e l’opposizione.
Se guardiamo ai risultati delle regionali appena concluse ci sembra di vedere una specie di conferma di entrambe le formule. Da un lato ovunque si è visto un bipolarismo imperfetto fra PD e FdI che sono gli unici due grandi partiti con una soglia veramente significativa di consenso. Dal lato opposto il quadro è dovunque frammentato con partiti minori che non si lasciano assorbire dai due maggiori, anzi si pongono in competizione più o meno esplicita e decisa con essi, ma non possono fare a meno di accettare di coordinarsi con loro come punto di riferimento.
A livello regionale questo quadro può dare diversi esiti che qui non è possibile esaminare. A livello nazionale indica però che bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato che dir si voglia la questione è ormai come ci si può organizzare all’interno delle due coalizioni che si contrappongono. In nessuna delle due il partito dominante ha abbastanza forza per puntare a realizzare da solo l’obiettivo maggioritario. Può sfiorarlo forse il PD in Emilia Romagna, ma si tratterebbe di un passo rischioso. Per il resto la prospettiva per il centrodestra così come per il centrosinistra rimane quella di mantenere in piedi una coalizione larga (la si chiami o meno “campo” è questione di bizzarrie terminologiche).
Per entrambe il problema spinoso è il governo delle tensioni interne. Non essendo più tempi di steccati storici o di tradizioni culturali garantite come era nella prima repubblica, nessuno dei partiti “minori” può sentirsi tranquillo delle percentuali conquistate (che fra il resto variano da regione a regione). Come insegna la cronaca, le variazioni sono più che sensibili. Prendete la Lega che in Umbria nel 2019 aveva il 36,9% e che oggi ha l’8,2, in Emilia Romagna aveva il 31,9, ora ha il 5,5. Per il M5S il passaggio è meno evidente per i risultati delle regionali, che pure sono più che modesti, mentre è abissale se si ricordano i successi alle elezioni nazionali di anni passati quando era riuscito ad essere il primo partito. Ciò significa che i partiti che sono ormai ridotti a “cespugli” attorno ai due grandi alberi si agiteranno non poco per mantenere potere nella spartizione delle risorse che garantisce la politica. È un film che stiamo già vedendo e che, francamente, non è molto edificante, ma soprattutto compromette una accettabile tenuta dei nostri complessi equilibri istituzionali.
Con un 2025 in cui avremo altre 6 elezioni regionali (con regioni “calde” come Veneto, Campania e Puglia) e altre comunali importanti (si pensi a Milano) c’è materia per fare più di una riflessione sul futuro del nostro sistema politico.
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