Che bisogno c’è, nel pieno della rivoluzione digitale, di scrivere un’enciclica “sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo”? Ed ancor più per quale motivo leggerla? Al dominio della mente e del cervello, dell’intelligenza che latita o che diventa artificiale, papa Francesco ripropone un tema che appare superato come la centralità del cuore e chiede all’umanità di ritornare ad esso. Solo dal cuore può partire il riconoscimento della dignità di ogni essere umano e la compassione per questa terra e le ferite dell’umanità (31). Sempre dal cuore parte l’intessere delle relazioni, della fraternità, il calore umano che Francesco vede smarrito in questo mondo. È solo dalla trasformazione del proprio cuore che è ancora possibile la trasformazione di questo mondo, un ritrovare un centro di unità “che unisce i frammenti” (17) su cui appoggiarsi per superare le miriadi di libertà, interessi, diritti individuali o, meglio, individualistici, e realizzare nel concreto la comunione. Gesti, sguardi, parole, mani, piedi che tanto più si muovono quanto appaiono collegati più al cuore che alla mente e possono trasformarsi in vicinanza, compassione, tenerezza, conoscenza profonda del proprio essere, attenzione all’altro, riconoscimento del bene.
Certo non “un” cuore vago ed indefinito, ma “il” cuore che rivive e rispecchia l’unico Cuore pienamente divino e proprio per questo profondamente umano: quello di Gesù Cristo.
Lungi da devozionismi e pietismi non si può comunque negare e nemmeno ignorare quanto sia estesa nell’enciclica la trattazione specifica sul Sacro Cuore di Gesù: il Papa sembra dire che, al contrario di quanto si potrebbe ingenuamente concludere, non tutti i tipi di cuori sono adatti per realizzare quella che ha chiamato come “la missione di far innamorare il mondo”. Non tanto di far “emozionare” il mondo quanto di farlo innamorare, cioè, risvegliare, infiammare ancora di missione per la costruzione del bene e l’annuncio del Regno di Dio. Chi potrebbe far innamorare altri di qualcuno che non frequenta, non conosce e di cui non è innamorato. Per questo il cuore che indica il Papa è quello della Bibbia, non quello costruito a tavolino dall’uomo ma quello rivelato da Dio stesso, il quale chiede a noi di assumerne fino in fondo l’immagine e la somiglianza. Il cuore che parla lì dove “siamo noi stessi” (6) e non si può ingannare, che “sta dietro ogni apparenza” (4) e mostra “chi sono davanti a Dio” (8). Il cuore che “estende la carità divina ai sentimenti dell’affetto umano” (61) e quindi estende la nostra capacità di amare, altrimenti solo limitata dai condizionamenti umani.
Sembra ormai superato il tempo in cui si contrapponevano essere ed agire, preghiera e servizio. Come conseguenza l’uno dell’altro invece il Papa sembra domandarsi perché portare avanti ancora una visione che trova opposizione tra l’esperienza spirituale personale, che ha sete di quel Dio che disseta come una fonte, e quella missionaria che fa agire ed operare per la comunità. Francesco trova nel cuore “la sintesi di tutto il Vangelo” (83) che sa tenere insieme queste due dimensioni, per non cedere nella vita della Chiesa a “varie forme di religiosità senza riferimento a un rapporto personale con un Dio d’amore” (87) e nemmeno ad “attività esterne e strutturali, organizzazioni ossessive, progetti mondani e riflessioni secolarizzate” (88). Battere all’unisono, consumarsi d’amore, riparare le ferite, dialogare cuore a cuore, offrirsi alla Misericordia divina, avere un cuore contrito, consolare e venire consolati, tutti termini che indicano diverse risposte possibili ad una sola certezza di fede: Cristo per primo “dilexit nos”, ci ha amati senza condizioni (1) ed ha ospitato nel suo cuore tutta l’umanità (179). Qualcosa che “nessun algoritmo potrà mai albergare” (20).
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