Alla Woodstock in salsa fassana di domenica 29 settembre, nella cornice naturale della val Duron, lontana anni luce dalle arene cittadine dove risuonano più polemiche che musica, si è respirata emozione. Quella di ogni meta alpina, ricompensa al po’ di fiato lasciato in questo caso sui quattrocento metri di dislivello salendo da Campitello, abolite, per una volta, le navette. L’emozione palesata con sincerità dal protagonista principale, Roberto Vecchioni, alla vista della folla accampata nel prato, tale da suscitare nel cantautore brianzolo l’ironico paragone con lo storico raduno hippie del 1969 negli USA. L’emozione, tanta, riposta infine nello zaino dagli ottomila, secondo le stime ufficiali, presenti all’appuntamento di chiusura dei Suoni delle Dolomiti, rassegna ormai impeccabile per scelte artistiche ed organizzazione. Uno accanto all’altro, tra volti che con piacere si riconoscono a distanza e molti altri ignoti ma partecipi, improvvisamente, di una stessa felice alchimia.
Vecchioni è poeta. Osserva la realtà e la trasfigura, nei testi e nelle note. Ma Vecchioni è anzitutto uomo. Anziano, pure, con i suoi ottantuno anni “suonati”. “Anche se – dice col sorriso rauco per il fumo – ne dimostro ventiquattro”. E non è una battuta, perché la performance del “professore”, in trio con Eros Cristiani (tastiere) e Massimo Germini (chitarra), è una lezione, con vigore giovanile, non tanto di credibilità (il che suonerebbe, a lui per primo, un inopportuno giudizio etico) ma soprattutto di autenticità.
Vecchioni è autentico perché non dimentica, e lo dice in apertura, il paradosso di esibirsi in una incantevole valle del Trentino mentre poco lontano da noi ci sono cieli solcati da missili e donne e bambini innocenti che muoiono per la pervicacia di governanti assassini.
Autentico perché innamorato della vita e nonostante delusioni e sofferenze che lo hanno profondamente ferito (è recente la perdita di un figlio, con un secondo segnato inesorabilmente dalla malattia), ammette che “un essere umano è una cosa grandissima, una cosa di corpo e spirito che non muore perché dentro ha la luce”. “E voi – sussurra al pubblico – ne avete tanta”.
Autentico perché capace di sorprendersi dei volti, a cominciare da quello di sua moglie, a cui rivolge una dedica appassionata: “Da 43 anni a questa parte lei è tutte le donne del mondo, il mio pubblico”, con il pensiero a tutto il genere femminile e ai troppi diritti violati.
Autentico, ancora, perché ammette che una vita fuori dalla logica del “noi” è destinata al fallimento.
Autentico perché non nasconde l’obbrobrio tecnologico – digitale che ci vede consegnare sole “cose” alle nuove generazioni, incorniciandole dentro schermi che impediscono ogni dialogo anziché “tramandare idee e pensieri ai figli, e ai figli dei figli”. Perché, ammonisce, il “mondo non è solo materia, lo sapete, il mondo è quella cosa che c’è qui stasera, questo spirito che passa tra tutti voi e significa una sola cosa: emozione”.
Ecco, Vecchioni è piaciuto, e molto, perché nell’autenticità della sua voce imperfetta ha saputo emozionare. E l’emozione, lo possono testimoniare in ottomila, ha ancora la pretesa di provare a smuovere le nostre coscienze per lo più inaridite. Rimette in gioco un po’ di slancio, fa venir voglia di essere migliori e provare a cambiare il flusso inesorabile della grigia quotidianità.
Emozione ed autenticità. Autenticità ed emozione. Una provocazione per tutti. Dalla Chiesa immusonita, alle prese con banchi sempre più radi e una fatica generalizzata che non la fa per nulla percepire “in uscita”, alla politica del muro contro muro che più non appassiona e ha reso superfluo anche il voto, apice della democrazia. E tuttavia, cambiare, non solo è possibile. È doveroso, anche restasse – ammonisce il profeta laico Vecchioni – un solo uomo sulla terra. A una condizione, come recita il brano che lo consacrò a Sanremo: “Chiamami ancora amore”.
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