Governo e opposizione si fronteggiano in questa ripresa dell’attività dopo le ferie: ciascuno cerca di presentare all’elettorato la prova della propria superiorità nell’affrontare l’attuale congiuntura. Giorgia Meloni presenta, con comprensibile enfasi, i risultati economici positivi che sono messi in rilievo dai dati rilevati: occupazione in buona forma, qualche misura di sostegno ai redditi più bassi, esportazioni e andamento dell’economia in crescita, persino al Sud considerato il tradizionale anello debole della nostra situazione. Poi ci aggiunge, ma fa parte della narrazione politica di chi sta al governo, un calo dell’immigrazione irregolare, la repressione a tutela dell’ordine pubblico, la stabilità del quadro politico. Tutte cose che, a suo giudizio, non andavano così bene quando al governo c’era “la sinistra”.
Fa parte della retorica politica che mischia sempre dati di fatto e interpretazioni di parte.
Lo stesso fa l’opposizione che dipinge una situazione generale preoccupante, se non catastrofica: troppo lavoro povero e precariato, risultati economici che giudica drogati, servizi pubblici che non funzionano a cominciare dalla sanità, spaccature in vista fra regioni ricche e regioni povere, nonché incremento del populismo becero che eccita i sentimenti popolari meno responsabili. Anche qui siamo sempre nel contesto retorico di cui sopra, in cui ciascuno recita un copione che gli è assegnato dal ruolo che occupa nella distribuzione del potere.
A favorire questo teatro ci sono le due prove verso cui sta andando il Paese. L’opposizione ha davanti l’occasione di vincere in due se non in tutte e tre le regioni che in autunno andranno al voto e vuole costruire la narrazione per cui questo sarà il preludio del declino della permanenza al governo del destra-centro. Giorgia Meloni, che è ovviamente consapevole che la sua maggioranza non si trova in buona posizione nella prova delle regionali, punta invece a ribadire che se la situazione economico-sociale regge e/o migliora ciò accade grazie a questo governo e alle sue politiche, per cui i successi eventuali dell’opposizione alle regionali sarebbero fatti locali e marginali.
Naturalmente non è completamente vera nessuna delle due narrazioni. Se l’opposizione dimostrerà di essere in grado di conquistare tre regioni importanti, crescerà il suo peso nel sistema politico complessivo. Ciò non dipenderà esclusivamente dal conquistare la maggioranza nelle urne, ma dalla sua capacità di costruire squadre di governo che valorizzino forze nuove, classi dirigenti più fresche senza soprattutto farsi intrappolare dal gioco della spartizione dei posti di governo fra una pletora di partiti, partitini e correnti poco interessati ad affrontare con la necessaria pazienza e responsabilità le riforme necessarie.
Non sappiamo se andrà in modo virtuoso. Più facile, ma fino ad un certo punto, in Emilia Romagna e in Umbria dove forse ci sono le condizioni per tenere sotto controllo le componenti più arrembanti (soprattutto M5S in quelle realtà non è gran che), più complicato in Liguria dove la presenza del grillismo è invadente e in perenne ricerca di piantare le sue bandierine (poco credibili, soprattutto per via dell’ideologismo pseudoambientalista).
Non sarà facile neppure per il governo confermare che la situazione economica tutto sommato favorevole sia interamente merito del cambio di segno politico. La prova della legge di bilancio è ardua: scarse le risorse da distribuire e agguerrite le richieste dei partner di governo (e delle varie lobby parlamentari…), ma se sarà costretto a destreggiarsi in una distribuzione senza indirizzo di quel che ha a disposizione, finirà per indebolire la sua vera risorsa che è la posizione conquistata sul piano europeo e internazionale.
Anche qui le cose vanno dette per quello che sono.
Con l’andamento del consenso politico in Paesi chiave, dove si vedono progressi preoccupanti delle destre estreme e dove le leadership tradizionali sono più che in difficoltà (basta pensare a Germania e Francia), cresce la tentazione di tenersi buona la Meloni, che potrebbe rappresentare una destra sulla via del rientro nel conservatorismo tradizionale. Ciò darebbe al nostro Paese delle opportunità che potrebbero aiutare in una fase di rilancio dell’economia, non fosse che la premier continua a scartare di fronte alla scelta di un posizionamento pienamente conservatore. Lo fa un poco per nostalgia del retroterra da cui proviene, molto di più per timore di perdere il sostegno della destra populista e reazionaria che le è pur sempre necessaria se vuol mantenere la sua preminenza elettorale.
Sia la destra-centro di governo che la sinistra-centro di opposizione devono però risolversi a chiarire i loro dilemmi interni. Illudersi per gli uni e per gli altri sulle bontà salvifiche delle ammucchiate è un gioco pericoloso e perdente. Sono tempi in cui bisogna decidersi a scegliere linee evolutive e riformiste, capendo che il galleggiamento non porta da nessuna parte.
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