Origine e significato della chiamata

Illustrazione di Fabio Vettori

14 luglio 2024 – Domenica XV Tempo Ordinario B

Am 7,12-15; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

«Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele». Am 7,15

Il filo rosso che lega le letture di questa domenica è quello della chiamata, che va interpretata alla luce della benedizione di Dio Padre sulla storia personale, ecclesiale e umana (cfr. il bellissimo cantico tratto dalla “Lettera di san Paolo agli Efesini” che leggiamo come seconda lettura).

La prima lettura presenta un confronto serrato tra due tipi di chiamata: quella di Amasìa, sacerdote di Betèl (antico luogo di culto del regno d’Israele) e quella del profeta Amos. Amasìa rappresenta la trasmissione dinastica del ministero sacerdotale in Israele; Amos rappresenta invece il primato dell’iniziativa di Dio nella vocazione profetica, che non è dinastica ma elettiva. Il profeta non nasce profeta e non si autoproclama profeta, anzi ha già una sua professione e la deve lasciare per fare ciò a cui il Signore lo chiama: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro» (Am 7,14). È Dio stesso e soltanto Dio a costituire un profeta come profeta: «Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele» (cfr. Am 7,15). Quella di Amos è una testimonianza che a distanza di 2.700 anni ancora provoca. Questo pastore-profeta ha la capacità di mettere da parte i propri progetti e la sua professione per rispondere a una chiamata di Dio che lo porterà a vivere un ministero osteggiato sia dal potere politico (rappresentato dal re), sia dal potere religioso (rappresentato dal sacerdote Amasia), sia nella società del tempo (della quale dovrà denunciare le ingiustizie e l’idolatria).

Leggendo il brano del vangelo di Marco che ci viene presentato questa domenica, scopriamo che Gesù, nel momento in cui si trova a istituire un gruppo stabile di collaboratori (i Dodici Apostoli), non segue il modello del sacerdozio dinastico dell’Antico Testamento, quando per essere sacerdoti bastava essere discendenti di Aronne e appartenere alla tribù di Levi. Gesù invece, nel chiamare i suoi, segue il modello elettivo e personale del ministero profetico. Gesù fa quello che nell’Antico Testamento Dio solo ha l’autorità di fare: chiamare e mandare. Così è successo per i Dodici, così sarà nei secoli per le migliaia di chiamati, così è ancora oggi.

Lo scopo per cui uno è chiamato ed è mandato risulta essere quello della salvezza integrale di ogni persona umana e di tutto l’essere umano. L’evangelista Marco insiste sul fatto che Gesù si occupa delle persone concrete con le loro sofferenze e i loro problemi: fisici, psichici, morali e certamente anche spirituali. Agli Apostoli (e quindi alla Chiesa) chiede di fare lo stesso. Paolo, nella seconda lettura, ci aiuta a comprendere che ogni salvezza particolare va collocata dentro il progetto eterno di salvezza che Dio ha per l’umanità. La missione della Chiesa e dei chiamati sarà quella di far conoscere questo meraviglioso progetto di Dio Padre: Egli ci ha benedetti, scelti, predestinati ad essere figli, redenti, perdonati e riconciliati, tutto ciò in Cristo Gesù.

Consideriamo infine un elemento che ci riporta all’inizio della nostra riflessione: il chiamato può essere accolto o rifiutato, ma non è l’essere accolto o l’essere rifiutato a costituire il criterio di autenticazione del suo ministero (prima lettura e vangelo). Anzi, in certi casi, l’essere rifiutato (l’abbiamo visto già domenica scorsa) evidenzia la fedeltà del chiamato alla sua vocazione (prima lettura). La verità del messaggio profetico non si valuta con gli indici di gradimento dei sondaggi!

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