La solitudine del profeta

Illustrazione di Fabio Vettori

7 luglio 2024 – Domenica XIV Tempo Ordinario B

Ez 2,2-5; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

«Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro». Ez 2,5

Nella lettera che san Vigilio invia a san Giovanni Crisostomo accompagnando le reliquie dei martiri anauniesi, così descrive la loro missione e azione pastorale: “Il nome del Signore era ancora del tutto straniero nella suddetta regione e non esisteva in essa nessun segno che ne potesse essere un indizio. Ebbene, questi fratelli, allora per il loro numero e ora per il loro merito, furono persone veramente straordinarie. Essi erano stranieri sia per la religione professata che per la nazione di provenienza. Hanno annunciato in maniera lodevole il Dio che là era completamente sconosciuto. Vissero insieme in tranquillità per lungo tempo finché non sorsero interessi in contrasto con la fede” (trad. V. Covi).

Vigilio, che abbiamo festeggiato pochi giorni fa (26 giugno), ci introduce nella riflessione sulla missione dei pastori all’interno della Chiesa. Per alcune settimane continueremo questa riflessione sollecitati dalla Parola di Dio. La prima lettura ed il Vangelo ci fanno comprendere che la chiamata ad essere pastore comprende al proprio interno anche la chiamata ad essere profeta, in sofferta solitudine. La seconda lettura ci fa cogliere che il profeta è un uomo che mette la propria debolezza a disposizione di Dio perché Dio la trasformi in forza. È stato così anche per Gesù.

Anzitutto consideriamo la solitudine. Nel profeta essa non nasce da un carattere asociale, misantropo, snob. Il profeta è profondamente solo perché è costretto ad essere anticonformista. Finché “non sorgono interessi in contrasto con la fede” nessuno lo tocca, ma nel momento in cui deve richiamare le esigenze dell’alleanza/relazione con Dio allora viene isolato, perseguitato, eleminato. È la vicenda di Ezechiele, narrata nella prima lettura, è la vicenda stessa di Cristo proposta nel Vangelo, è la vicenda dei martiri anauniesi e dello stesso Vigilio. Anche se non viene capito, anche se non viene accettato, anche se viene ostinatamente ostacolato il profeta deve però rimanere fedele alla sua vocazione. Diventa sì un segno di contraddizione, ma un segno che non si può rimuovere. Chiediamo a Dio che i pastori della Chiesa sappiano essere anche oggi una presenza profetica, che sappiano disturbare il nostro conformismo, che mettano a nudo il nostro cuore indurito, che denuncino il nostro venir meno all’ascolto della Parola del Signore e all’alleanza/relazione con Lui.

In secondo luogo, impariamo che la debolezza, messa nelle mani di Dio diventa forza. La debolezza si presenta con molti volti. Per i paesani di Gesù egli risulta troppo umano, troppo conosciuto, troppo normale per poter essere accolto come profeta. Avrebbero preferito un prestigiatore comparso dal nulla, non va loro bene un profeta cresciuto nell’umile famiglia di un carpentiere. Così lo stupore per la sapienza di Gesù non si trasforma in fede e in gratitudine bensì in diffidenza e rifiuto. Per evitare il vizio dei Nazaretani, dovremmo anche noi domandarci quali sono le nostre pretese nei confronti dei nostri pastori e da cosa sono dettate. La debolezza di Cristo (il suo essersi fatto uomo) è stato lo strumento della nostra salvezza. L’esperienza di Paolo (seconda lettura) è, a questo proposito, illuminate. Nelle mani di Dio, anche i limiti possono diventare una risorsa, esente dal rischio di presunzione: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).

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