Mauro Dossi è l’ex amministratore delegato di una società produttrice di energie rinnovabili e nella sua vita ha ricoperto diversi ruoli istituzionali, diventando anche vicesindaco di Bretonico. È sposato con tre figli, di cui una ragazza in adozione dal 1994. Ha iniziato a fare volontariato fin dai 18 anni, quando è stato nominato presidente del circolo ricreativo di Brentonico. Oggi è il presidente dell’associazione “Il Melograno”. L’ufficio stampa del Comune di Trento ha raccolto la sua storia per “Gente felice”, la campagna lanciata in occasione di Trento capitale europea e italiana del volontariato 2024.
Com’è nata l’associazione Il Melograno?
È iniziato tutto con l’arrivo di Josie (ndr la figlia adottiva di Mauro) in Italia. Lei arrivava dal Burundi, un Paese in guerra diviso fra Huti e Tutsi: esattamente la stessa contrapposizione esistente in Rwanda, ma invertita in termini di etnie. Aveva 13 anni ed era figlia di un ex ministro dell’istruzione del Paese che si è prodigato per portare la pace fra le due fazioni, promuovendo i patti di Arusha, ma nel 1997 è stato avvelenato. Josie allora si è fatta promettere che l’avrei riportata in Burundi per assistere al funerale di suo padre, ma in quel momento c’era l’embargo totale del Paese, quindi non c’erano voli di linea. Arriviamo perciò con un volo clandestino e lì c’è stato l’impatto violentissimo con la realtà di quel Paese. Quello che mi ha colpito di più è stata la situazione dei bambini, abbandonati per strada, senza un posto in cui dormire o mangiare. Quando sono rientrato (all’epoca lavoravo per la Marangoni), avevo la scrivania piena di carte, dopo 15 giorni di assenza. Quelle carte, però, non le vedevo neanche. Lì ho realizzato di dover far qualcosa, non potevo restare indifferente, e così, con un gruppo di amici, abbiamo costituito l’associazione.
Di cosa si occupa l’associazione?
Ci occupiamo principalmente dei bambini e delle donne. Abbiamo iniziato costruendo orfanotrofi, scuole materne, la cooperativa agricola femminile, la casa della giovane in Burundi. Soprattutto lavoriamo moltissimo con le scuole. Per fare questo, la strategia è far diventare i progetti dell’associazione progetti di comunità. Quindi abbiamo fatto un gemellaggio fra il comune di Brentonico e il comune di Muyinga (che è una delle città principali del Burundi). Poi un gemellaggio fra le scuole di Brentonico e quelle di Busiga. E ultimamente abbiamo fatto un gemellaggio fra le scuole materne di Crosano e di Busiga. È una gioia vedere quanto questi bambini sono entusiasti nel dare e nell’aspettare notizie, scambiando disegni, video e oggetti. Per esempio, i bambini di Crosano, quando ho raccontato che le capanne in Burundi sono fatte di mattoni e paglia, hanno creato dei mattoni e mi hanno chiesto di portarli a Busiga. Per loro era la cosa più naturale che potessero fare per aiutare. In questi gemellaggi abbiamo cercato di creare ponti, non solo sulla carta. Quindi gli insegnanti di Brentonico sono andati in Burundi per un mese e viceversa; gli allevatori di Brentonico sono andati in Burundi; i tamburisti africani sono venuti qui. C’è stato proprio uno scambio di comunità, per far sì che queste esperienze siano utili a tutti. Non è facile, ma qualche risultato lo abbiamo ottenuto.
Come si sono sviluppati i progetti dell’associazione nel tempo?
Da quattro o cinque anni ci stiamo concentrando soprattutto sul creare posti di lavoro in loco. È successo, infatti, che noi abbiamo accompagnato dei bambini dell’orfanotrofio in tutto il loro percorso di istruzione, fino alla laurea. E lì la soddisfazione ha ceduto il passo ad una grossa delusione: questi ragazzi sono tornati da noi, ringraziandoci per tutto, ma senza idea di cosa fare in futuro. I Paesi in cui operiamo (il Burundi ma anche lo Zimbawe) sono Paesi che hanno espresso i loro governanti attraverso le elezioni, ma che di fatto si sono ritrovati con dittatori sotto il giogo delle multinazionali che stanno sfruttando questi territori. Quindi questi ragazzi istruiti sono scomodi per la classe politica. In più c’è poco lavoro. Allora recentemente abbiamo aperto un grosso garage per aggiustare le macchine, dove abbiamo formato tanti ragazzi degli orfanotrofi, sempre mantenendo il nostro modello di scambio: a turno, ogni sei mesi, dei nostri meccanici si recano in Burundi per dare formazione. Poi abbiamo creato un laboratorio di cucito e una grande falegnameria e vendiamo in Italia i prodotti fabbricati lì. L’idea è aiutare questi Paesi ad esportare le loro creazioni e ottenere una fonte di autofinanziamento, ma anche lasciare un segno nelle famiglie italiane che acquistano questi prodotti. Poi abbiamo aperto anche un caseificio, riutilizzando i macchinari di Agitu. E lì il problema principale era che nei villaggi e nelle zone periferiche non c’è abbastanza domanda, per cui gli allevatori non riescono a vendere abbastanza. E allora abbiamo iniziato ad esportarli nella capitale, dove c’è più disponibilità economica.
Quanti membri ha l’associazione al momento?
Attualmente siamo circa in ottanta, di cui venticinque/trenta si occupando della parte amministrativa e dell’organizzazione. Poi ci sono i professionisti che si recano in Africa per le formazioni, che vengono iscritti come soci e poi, terminato il periodo all’estero, decidono se restare nell’associazione o meno. E poi abbiamo tanti giovani, che però spesso non riescono a garantire una presenza stabile e restano per pochi mesi, spesso solo in estate. Sarebbe importante, come associazione, trovare delle modalità per accogliere anche questo tipo di partecipazione temporanea, in modo da coinvolgere di più i giovani.
Quali ostacoli o difficoltà ha riscontrato nel fare volontariato nella cooperazione internazionale?
Recentemente è stata fatta una riforma delle associazioni del terzo settore, che è stata pensata per mettere ordine ma che considera solo le grandi organizzazioni. Si vede già dal sito web per accreditarsi: è complicatissimo e pieno di burocrazia. Dopo la riforma i costi di gestione per noi de Il Melograno sono raddoppiati. E in più si va verso la professionalizzazione del volontariato, che penalizza i gruppi che si fondano sul lavoro di volontari non retribuiti. Poi, nel nostro campo, un problema è che ambasciate e consolati si occupano poco delle associazioni e sono più focalizzati sulle imprese. Inoltre la classe politica, profondamente corrotta, dei Paesi in cui operiamo approva norme sempre più restrittive sulle importazioni, per poterci guadagnare.
Perché ha scelto di fare volontariato in questo ambito?
Perché chi lavora nella solidarietà internazionale ha un grandissimo ritorno e ha modo di imparare due cose: la prima è che esiste un modo di vivere alternativo, senza frenesia, senza la fretta tipica del nostro mondo; in secondo luogo queste esperienze ti aiutano a rimettere in scala le priorità della vita. Poi c’è un livello collettivo, al di là dell’individuo, che ti permette di mettere in campo le competenze apprese come volontario, nella tua comunità territoriale e, quindi, c’è un ritorno sul benessere di tutti.
Come fate a coinvolgere così tanti cittadini nelle attività dell’associazione?
Facciamo due serate l’anno di restituzione alla comunità, in cui raccontiamo i nostri progetti. E poi è fondamentale il lavoro sui bambini, che con il loro entusiasmo riescono a coinvolgere anche i genitori.
Fare volontariato mi rende felice perché?
Perché mi fa vivere in un mondo diverso, ma possibile.
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