Come interpretare i risultati italiani delle urne europee: ecco la domanda che si fanno i vari opinionisti, ma anche i gruppi dirigenti dei vari partiti.
Il primo dato riguarda ovviamente l’astensionismo: alto dovunque, ma in alcune regioni come al Sud più che notevole. Tutti a dire che bisognerà recuperarlo, ma la voglia di farlo è scarsa. L’astensionismo deriva da un complesso di fattori, ma quello non legato a contingenze peculiari (scarsa istruzione, lontananza dai luoghi di voto, ecc.) dipende dalla disillusione della gente per una politica che fa molti proclami, promette soluzioni rapide e non può realizzarle. Di conseguenza una quota cospicua degli elettori pensa che chiunque vinca non si andrà oltre le chiacchiere e tutto resterà più o meno affidato al caso.
Contrastare questo sentimento significherebbe abbandonare la demagogia in politica, lavorare coi piedi per terra, dire onestamente che senza uno sforzo solidale e senza tanta pazienza non si risolve nulla. Ma questo deluderebbe gli elettorati radicalizzati che ciascun partito si è costruito e che sono i pretoriani dei vari gruppi dirigenti: per questo i partiti faranno poco per allargare il campo del rispettivo consenso abbandonando le bandierine di parte.
Del resto apparentemente le urne europee hanno premiato la radicalizzazione dei campi contrapposti, cioè il duello destra contro sinistra. La personalizzazione della politica porta alle icone Giorgia contro Elly, ma è così fino ad un certo punto, perché se si guardano i dati un po’ in dettaglio si vede che non è proprio il teatrino proposto dai talk show. Innanzitutto distinguiamo i risultati delle europee in cui si è votato col proporzionale da quelli delle amministrative in cui pesano le coalizioni (e spiamo parlando di quasi 17 milioni di elettori).
Nel primo caso la radicalizzazione ha funzionato in un senso molto particolare. C’è stato un successo della destra di governo (Meloni e Tajani) e un discreto flop di quella demagogica (Salvini). È molto evidente se non si guardano solo i dati nazionali, ma quelli regionali: il sorpasso in Veneto di FdI sulla Lega è qualcosa di molto significativo, mentre la tenuta di quest’ultima dipende più che altro dalle demagogie alla Vannacci o da quelle stile condoni e ponte di Messina. Di conseguenza si vedrà se Meloni legge così questi dati e accentua la sua trasformazione in una componente conservatrice lasciando perdere le sirene sia del revanchismo (ben presenti in FdI) sia del facciamo tutto da soli col mito del o la va o la spacca (i percorsi sulle riforme istituzionali dovrebbe ripensarli).
Problemi ci sono anche nell’interpretare il voto a sinistra. Il naufragio dei Cinque Stelle era atteso (non si vive più di una stagione in base ai colpi di fortuna della demagogia), mentre la novità è il buon successo del PD. Anche qui è semplicistico darne tutto il merito alla Schlein come fanno gli arrembanti nuovi gruppi dirigenti che sono legati a lei. Hanno portato più consensi i riformisti più o meno professionali alla Bonaccini e compagni che non le candidature radicali messe in campo dai “nuovisti” della segreteria. Hanno trainato i radicamenti territoriali che si sono potuti spendere nel “pacchetto” che ha legato europee ed amministrative assai più che i presunti “pluralismi” di chi ritiene che un partito possa essere una ammucchiata di idee contrastanti. Detto questo, rimane che il PD potrebbe essere oggettivamente il partito perno di una coalizione alternativa alla destra-centro, a patto che torni ad esprimere una leadership politica e non ideologica, che tenga conto che ha bisogno di ricostruire un’identità di centro sinistra riprendendo l’opera di allargamento al centro.
Non sarà facile perché il successo di AVS sembra dare grande spazio alla sinistra radicale, ma ci permettiamo di suggerire di ricordarsi della storia dello PSIUP o più semplicemente di sapere che con un contesto internazionale ribollente il mito della rivoluzione ha sempre un eterno ritorno, ma non dura.
Resterebbe da fare un discorso sul fu “terzo polo” che è riuscito ad autoannullarsi per la sua sudditanza a due leader, Renzi e Calenda, che sanno fare anche discorsi politici interessanti, ma non sanno costruire le reti che contengono nuove classi dirigenti e radicamenti nei territori. Non a caso funzionano come forze complementari dove fanno squadra con la coalizione di sinistra, altrimenti fanno gli inutili guastatori. Colpa loro, ma anche del PD che non capisce che osteggiandoli si preclude un allargamento al centro che è essenziale per tornare vincente (con questa tattica il vecchio PCI riuscì ad uscire dalla sua marginalità).
Del resto a tutti converrebbe ragionare su come è andata la tornata delle amministrative, che ha mostrato un paese assai meno radicalizzato di quel che si pensa, attaccato invece alla conferma dovunque di chi governa in maniera accettabile e senza fare il fenomeno (di destra o sinistra che sia). Se si vuole una migliore politica è necessario che il Paese si stabilizzi, come in fondo domandano gli elettori. I gruppi dirigenti dei partiti guardino a questa evoluzione e si scrollino di dosso pasdaran, pretoriani e assimilati.
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