Anche se il titolo del suo libro, presentato al Vigilianum di Trento nel pomeriggio di lunedì 27 maggio, sembrerebbe già fornire una risposta, Giacomo D’Alessandro (a sinistra nella foto), autore di “Fare quanto è giusto. Le pratiche dei ‘buoni’ nel Paese che declina”, apre il suo intervento con un interrogativo: “Che fare?”. Una domanda aperta, riferita dal giovane scrittore e attivista del sociale alle tante problematiche che affliggono l’Italia e il mondo di oggi, rispetto alle quali spesso non basta l’impegno dei “buoni” citati nel sottotitolo.
“Questo libro è un po’ un pretesto per confrontarsi, a partire dalle domande che nascono dalle tante persone che si preoccupano per ciò che succede intorno a noi”, spiega D’Alessandro, che spesso, viaggiando, si è trovato davanti ai “tanti mondi che non vengono raccontati, dove c’è un bene diffuso giorno per giorno, con fatica, competenza e determinazione”. Mondi che ha voluto raccontare nel libro, pubblicato dalle Edizioni e/o nella Collana di pensiero radicale diretta da Goffredo Fofi. Mondi nei quali ci si impegna, si lotta, a volte anche contro i mulini a vento, a volte nei panni di Davide contro Golia, in cui, tra un problema e l’altro capita di fermarsi un attimo e chiedersi “che fare?”.
“Non basta dirsi quello che non va, ma bisogna ragionare sulle prospettive”, spiega D’Alessandro, che porta come esempio quanto ha visto a Ventimiglia negli anni dell’emergenza delle migrazioni sul confine tra Italia e Francia. “La Francia ha militarizzato le frontiere, mentre in Italia né lo Stato né la cittadinanza hanno supportato le persone migranti con azioni di accoglienza”. Quindi chi si è mosso? Chi ha saputo organizzarsi al fianco dei più deboli? “Organizzarsi, con la libertà e la radicalità necessarie per affrontare emergenze di questo tipo è difficile”, considera D’Alessandro: “A farlo sono stati gruppi provenienti dalle città, dei centri sociali, delle università, scout, collettivi internazionali, a cui si è affiancata una piccola fetta di cittadinanza: un sacerdote colombiano che ha aperto un campo di accoglienza e per 2 anni ha offerto 1.500 pasti al giorno, e una barista, l’unica che non ha chiuso il suo bar alle persone di colore, ma ha messo un fasciatoio per le mamme, ha raccolto vestiti usati, e come risultato ha perso tutta la clientela italiana”.
Piccole pratiche di resistenza che prima di tutto devono essere insegnate, trasmesse ai più giovani e ai tanti volontari che si muovono in quell’importante spazio che c’è tra la professionalità e la passione. Lo sottolinea, nel dibattito promosso in collaborazione con Vita Trentina, Chiara Lucchini, del Centro Astalli e dello Sportello antidiscriminazioni di Trento, rappresentando le storie di chi si attiva anche nella nostra città. “La politica non fa, e ultimamente ostacola chi fa”, denuncia Lucchini, riferendosi ai tagli all’accoglienza: “Quindi che fare? Diventare sempre più competenti e portare avanti l’impegno, giorno per giorno”, conclude. “Sporcarsi le mani”, le fa eco Lorenzo Albertini, capo scout AGESCI: “Quel verbo fare contraddistingue anche noi scout, e anche senza essere tutti competenti, decidiamo di muoverci perchè ci sentiamo chiamati da qualcosa”. Una vocazione all’azione che anima anche Stefano di Extinction Rebellion, Tobia di Ultima Generazione, e i tanti giovani che affollano la sala, con una voglia di fare che spesso non viene rappresentata, quando si fotografa la loro generazione.
Ma fare cosa, quindi? Giacomo D’Alessandro conclude l’incontro con quattro suggerimenti: fare comunità, e farla fisicamente, con la presenza attiva; fare nomadismo, andare in giro a scoprire le buone pratiche degli altri; poi sottrarsi al sistema, quando è necessario “isolarsi” per generare qualcosa di nuovo; infine praticare la disobbedienza civile, mettersi di traverso per combattere ciò che non va bene, ciò che non è giusto.
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