Dopo cinque anni di assenza dall’Europa ecco presentarsi con atteggiamento sornione e da grande potenza l’indiscusso capo cinese Xi Jinping. Un’apparizione accompagnata da grandi onori e da attenta considerazione. Oggi la Cina è a tutti gli effetti una grande potenza e la sostenitrice più convinta di quello che oggi chiamiamo l’ordine multipolare in contrapposizione a quello multilaterale di ieri. La differenza non è da poco, perché di fatto siamo tornati al vecchio sistema di relazioni internazionali basato sull’equilibrio fra le grandi potenze del mondo e non più a quel progetto istituzionale un po’ idealista del dopo Seconda guerra mondiale sotto le ali protettive delle Nazioni Unite e delle sue regole teoricamente valide per ciascuno stato. Regole da attivare soprattutto allorquando all’orizzonte si manifestavano conflitti e contese di vario tipo, da quelle commerciali al rispetto dei diritti umani.
Con il ritorno della guerra in Europa e nel Grande Medio Oriente (e non solo) il dato di fatto più eclatante è la quasi completa scomparsa dell’Onu e del suo ruolo di mediatore. È quindi di grande interesse valutare le ragioni del viaggio di Xi Jinping in Europa in questo particolare frangente di difficoltà per l’Unione europea, confrontata ad est dall’espansionismo militare di Vladimir Putin e ad ovest da un rapporto ancora stretto con Washington, ma ormai da anni sempre meno convinto soprattutto da parte americana.
La prima tappa del viaggio a Parigi di Xi si inquadra proprio in questa crescente difficoltà di dialogo dell’UE con gli Usa e dal tentativo della Cina di approfondire il solco fra le due parti. Emmanuel Macron riveste infatti i panni, un po’ gollisti, di un paese dell’UE che da anni predica l’autonomia strategica dell’Europa e per quanto riguarda la guerra vicina non esclude, senza consultarsi con i suoi partner, la possibilità concreta di mandare truppe in aiuto di Kyiv nel caso di una grande avanzata russa. Nel non condannare questo ambizioso proponimento, Xi ottiene un doppio risultato: quello di dividere Parigi dai propri soci europei tutti contrari (salvo i tre paesi baltici) ad un intervento diretto in Ucraina e dall’altra di accrescere la distanza di Parigi da Washington sul delicato tema di una politica di difesa europea non necessariamente inquadrata nella Nato. Negli incontri di Parigi ben poco è stato ottenuto da Macron, salvo la beffarda promessa di diminuire i dazi sul Cognac da esportare in Cina. Ma nulla sulla questione ben più rilevante della concorrenza sleale dei cinesi con la vendita in “dumping” delle auto elettriche, delle batterie e dei pannelli fotovoltaici.
La presenza al suo fianco della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che aveva il compito di confermare che quella sul commercio degli apparati elettrici è una richiesta comune dell’intera Unione (o quasi, con l’eccezione della solita Ungheria) non ha migliorato il risultato finale del vertice. Neppure sula richiesta di prendere una maggiore distanza da Mosca sul dossier ucraino la Cina ha dato segnali incoraggianti, anzi. D’altronde “l’amicizia senza limiti” per Putin è stata ben più chiaramente rafforzate nelle due altre visite del leader cinese in Serbia e in Ungheria. Entrambi i paesi, come è noto, non hanno applicato le sanzioni economiche europee nei confronti di Mosca e hanno continuato a mantenere rapporti diretti con Putin. La differenza è che, mentre la Serbia è solamente un candidato ad entrare nell’UE, l’Ungheria ne fa completamente parte.
Di nuovo Xi non ha fatto altro che cercare di approfondire le divisioni e i dissapori fra le due capitali e Bruxelles. Soprattutto grave in termini di significato anti-europeo è stata la tappa a Budapest dove la Cina ha confermato di costruire una fabbrica di macchine elettriche (e di batterie) che a regime produrrà 200mila vetture a prezzi estremamente competitivi e con scarsa possibilità da parte europea di applicare dazi poiché l’Ungheria fa parte del mercato interno europeo. Per di più la Cina si colloca al primo posto negli investimenti in quel paese con la bellezza di 16 miliardi di euro all’anno e può quindi sottolineare l’importanza per gli altri paesi dell’est europeo e dei Balcani dei grandi benefici che si possono ottenere dall’aderire all’ambizioso progetto di Pechino della Belt and Road Initiative (una specie di via della seta) che mette assieme Cina e ben 14 paesi europei. Via che oggi è divenuta ancora più importante dovendo passare dai paesi del Caucaso e dei Balcani dopo la chiusura, a causa della guerra, della rotta che passava per Russia e Bielorussia.
Su questo stesso spartito si è svolto l’incontro con il presidente serbo Alekandr Vucic, anch’esso in ottimi rapporti con Mosca e molto dipendente dagli investimenti cinesi a Belgrado. Xi, forse preso dall’entusiasmo, ha addirittura parlato di “amicizia di acciaio” (il ferro non basta più) con Belgrado. La verità è che Xi ha voluto così ricordare solennemente il 25° anniversario della morte di tre giornalisti cinesi nel bombardamento da parte della Nato dell’ambasciata di Pechino ai tempi della difesa da parte degli occidentali della lotta per l’indipendenza nel Kosovo. Fatto che avvicina ancora di più Serbia, che rivuole il Kosovo, e Cina, che pretende il ritorno alla madrepatria di Taiwan.
Insomma, una visita politica, quella in Europa di Xi, volta a dividere l’Ue e ad indebolire l’alleanza con gli Usa, visita che ha trovato ben poche risposte politiche da parte della debolissima Bruxelles.
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