Esattamente 30 anni fa in Ruanda si scriveva una delle pagine più buie della storia del XX secolo: non solo per l’enormità del massacro e le modalità con cui venne eliminato un milione di persone inermi ma anche per l’indifferenza della Comunità Internazionale che invece di intervenire addirittura ritirò i pochi caschi blu dell’UNAMIR, la missione ONU presente nel piccolo Stato africano per garantire la sicurezza e calmare le tensioni etniche tra la maggioranza Hutu e la minoranza Tutsi. Il trentino Fabio Pipinato (con la moglie Paola Martinelli stava prestando servizio in fisioterapia nell’ospedale di Rilima, cittadina a 30 km dal confine con il Burundi) ricorda la strana impressione della mattina del 7 aprile 1994: la radio trasmetteva musica classica e proclami nella lingua locale, il Kinyarwanda. Quando, come tutte le altre mattine chiese aiuto agli zamu (i guardiani notturni) per riempire la cisterna con l’acqua da distribuire nel vicino campo profughi burundese, notò che questi rimanevano inerti confabulando tra loro con in mano una radiolina gracchiante. Non era giornata. Era stato appena ucciso il presidente Habyarimana. Era la sera del 6 aprile del 1994 quando, con l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano i presidenti di Ruanda e Burundi, di ritorno dalla firma degli accordi di pace di Arusha, iniziò quello che la storia ricorda come il genocidio del Ruanda: 10 mila morti al giorno, massacrati per lo più a colpi di machete, per tre interminabili mesi. Triste punto di arrivo di una serie di concause (che devono anche oggi suonare come campanello di allarme): disagio sociale, crisi economiche, perdita di valori e punti di riferimento nelle comunità. Ma soprattutto frutto del quotidiano instillare il seme dell’odio, far riemergere antichi risentimenti, indicare un capro-espiatorio su cui addossare tutte le colpe. In quel caso era l’etnia “Tutsi” la causa di ogni male del Ruanda, il nemico da combattere, il diverso da eliminare per la popolazione maggioritaria “Hutu”.
Un genocidio pianificato su più fasi, a partire dalla distribuzione delle radioline per “comandare” la popolazione, la lista dei Tutsi e degli Hutu moderati da eliminare per primi, la distribuzione di grandi quantità di machete, la formazione delle bande paramilitari Interhamwe.
Dopo cento giorni, tre quarti della popolazione Tutsi era stata massacrata, 2 milioni di profughi fuoriusciti dal Paese, 1 milione gli sfollati interni, 100.000 le persone in carcere, il Paese in fiamme. E tutto condito con intrighi internazionali, interessi di spietati uomini d’affari e multinazionali, realpolitik di potenze straniere, l’ONU bloccata e incapace di intervenire, il termine “genocidio” accuratamente evitato nelle sedi istituzionali e citato coraggiosamente la prima volta solo da papa Giovanni Paolo II. Alla fine l’anglofonia ebbe allora la meglio sulla francofonia: il Fronte Patriottico Rwandese a guida Tutsi, che scendeva dall’Uganda con il sostegno e i rifornimenti di armi di britannici e americani, prese il sopravvento sulle FAR, le armate Hutu. Si invertirono così le parti e iniziò la caccia agli Hutu, che scapparono anche coperti da una ritardata e ambigua “Operazione Tourquoise” condotta dai francesi – nella confinante Repubblica Democratica del Congo, esportando l’instabilità nelle ricchissime regioni del Kivu e del Katanga.
Ma nella desolazione emergono anche storie di bene, di coloro che si adoperarono come poterono per arginare l’avanzata del male, che ci insegnano a non arrendersi. Tra questi Pierantonio Costa, imprenditore italiano che viveva a Kigali e al tempo era stato nominato console onorario in Ruanda (lo racconta un libro “trentino”, vedi pag. 17) . Un moderno Perlasca che, nonostante l’isolamento diplomatico, a rischio della sua vita, impiegando le risorse economiche che aveva a disposizione e soprattutto le sue capacità di relazionarsi, trattare e negoziare, riuscì a mettere in salvo duemila persone. Per tutti gli anni a seguire, mai un vanto; ha continuato a ripetere: “Ho solo obbedito alla mia coscienza”.
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