Va bene lo scontro elettorale alla ricerca di qualche punticino o zero virgola in più, ma lo stato attuale del quadro politico mostra classi dirigenti piuttosto allo sbando. Mentre ci sono sul tappeto problemi assai gravi, dalla situazione internazionale che rimane più che cupa al governo di un bilancio statale che quadra fino ad un certo punto tanto che ci si prepara a chiedere un extra deficit, i partiti sembrano interessarsi solo allo sfruttamento dei pregiudizi che abbondano fra la gente.
Tutto ciò si vede in maniera macroscopica nello scontro fra Conte e il vertice del PD, ma è presente anche fra le fila della maggioranza, dove non mancano le guerre intestine. Soprattutto è testimoniato dal fiorire di una frammentazione politica che vede in campo varie forze assai lontane dalla possibilità di raggiungere la fatidica soglia del 4% alle elezioni europee, e al tempo stesso nelle elezioni amministrative un complesso di liste che si presentano come “civiche” (etichetta che si ritiene nobilitante) e che invece sono espressione di piccoli lobbismi personali.
Sul fronte della attuale maggioranza è percepibile l’impasse che riguarda i due progetti di riforme istituzionali che sono stati presentati come quasi rivoluzionari. La vicenda delle autonomie differenziate è ridotta ad una banalissima bandierina che deve soddisfare una Lega intrappolata nelle trovate di Salvini.
Cosa contenga veramente non è più discusso, la faccenda della garanzia dei livelli essenziali di prestazione è in frigorifero perché non si sa come sortirne, tutto è ridotto a qualche slogan di propaganda, giusto per presentarsi al proprio elettorato con uno scalpo in mano (con la piccola complicazione che forse quello è gradito al Nord, ma è inviso al Centro e al Sud).
Quasi peggio per quanto riguarda la riforma del cosiddetto premierato. Più si va avanti, più ci si rende conto che il progetto è stato scritto coi piedi, che si rischia di mettere in moto una macchina che alla fine travolgerà tutti. Di qui i tentativi all’interno della maggioranza di mettere clausole e paletti che salvino la possibilità dei partiti della coalizione di tenere in scacco il premier eletto, mentre una parte rilevante delle opposizioni si limita a lavorare nella prospettiva di andare al solito referendum confermativo in cui agitare lo spettro dell’autoritarismo, se non del fascismo alle porte.
Le voci ragionevoli, che pure ci sono, e che cercano di spiegare che non è male sottrarre il primo ministro al ricatto costante dei partiti e che propongono soluzioni possibili tipo il cancellierato tedesco, non riescono a trovare spazio perché è tutta una lotta di bandierine, e le proposte meditate non sono riducibili a quegli orizzonti.
In tutto questo si è infilata la diatriba aperta a freddo da Giuseppe Conte nella cinica prospettiva di risvegliare a suo favore vecchi istinti che stanno fra il dipietrismo e il grillismo. È la scoperta dell’acqua calda constatare che in politica la tentazione di raccattare il lusco e il brusco per raggranellare un po’ di potere è una componente purtroppo stabile. Certo quando si passano i livelli di guardia è preoccupante, molto preoccupante, ma va capito il perché accade. Banalmente perché in una contrazione generale delle ragioni ideali del partecipare alla politica è sempre più difficile coagulare un consenso che prescinda dalla difesa di interessi, sempre più piccoli e più limitati.
Stracciarsi le vesti perché questo è successo in Puglia, dove il fenomeno era visibile e peraltro anche denunciato da più di un decennio, oppure a Torino dove al momento riguarda un personaggio e qualche suo sodale piuttosto che un sistema, è fare teatrino, non politica. L’obiettivo di Conte, piuttosto evidente per chi da anni osserva la nostra vita pubblica, è azzoppare la leadership di Elly Schlein, spingendola ad intrappolarsi nello scontro interno in nome delle sue modeste origini movimentiste. La segretaria, pur avendo fatto ufficialmente il viso dell’arme verso il leader di M5S, ci è subito caduta correndo a varare un “codice etico” per la selezione delle candidature, cioè ammettendo che ci voglia un editto specifico per garantire che non si candidino persone non per bene.
Il solito marziano piovuto sulla terra potrebbe osservare che si tratta di una regola già esistente, derivante dalla moralità comune, per cui non c’è bisogno di sancirla solennemente: altrimenti diventa come la famosa “patente” di una commedia di Pirandello, un escamotage per cui qualunque selezionato potrà fregiarsi di un titolo nobilitante per una posizione che continuerà a guadagnare per altri meriti. Avere buona politica in una situazione tanto confusa somiglia davvero allo sperare contro ogni speranza.
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