Nella Domenica delle Palme, dopo la lettura del Passio, il parroco ha invitato a trovare un personaggio in cui riconoscerci. Avrei scelto, in questa travagliata Pasqua 2024, la figura silenziosa ma eloquente di Giuseppe d’Arimatea. Un santo quasi anonimo, minore, posto all’ultima stazione della Via Crucis e all’angolo negli affreschi delle Deposizioni. Ma nel suo “prendersi cura del corpo di Gesù” ci conforta e ci sprona.
L’evangelista precisa che egli si prende l’incarico di dare sepoltura a Gesù “in una tomba di sua proprietà”. Sottolinea la dedizione con cui svolge quello che è un servizio alla dignità umana, prima ancora che una delle opere di misericordia.
L’attanagliante clima di questi giorni di escalation bellica ci porta a pensare a quanti altri sconosciuti Arimatei in tanti fronti di guerra rischiano oggi la vita per non lasciare sul terreno i morti, incaricandosi di recuperare i cadaveri. Vale per chi ha dovuto effettuare questa pietosa operazione a Mosca dopo l’attentato dell’ISIS di venerdì scorso, con la necessità di riconoscere i corpi straziati.
Un rito triste che si rinnova ogni giorno anche negli obitori delle città ucraine dove arrivano le vittime dei bombardamenti e i loro familiari in ansia, come avvenuto lunedì sera a Karkhiv. “Si sono messi in fila mariti, mogli, genitori, figli. Prima davanti al casermone sventrato. Poi nel cortile dell’obitorio – ha scritto in un reportage l’inviato di Avvenire, Giacomo Gambassi – Le code della speranza e del dolore, di chi non aveva notizie del proprio familiare che era nella tipografia. Alcuni sono stati trovati sotto le macerie ancora vivi”.
Giuseppe d’Arimatea offre idealmente un volto a tanti operatori sanitari e a tanti volontari – come nei giorni tremendi del Covid, già quattro anni fa – impegnati ogni giorno ad assicurare vicinanza umana ai moribondi: in Terra Santa come in Ucraina, negli ospedali africani o nelle strade latinoamericane, si dedicano con tenerezza a custodire i loro corpi fino all’ultimo respiro. Fino alla chiusura della bara, che per i loro cari è il momento penoso della separazione fisica, angosciante nella solitudine.
Come il falegname Giuseppe, padre putativo di Gesù, anche il discepolo di Arimatea non dice una parola, ma si dà da fare. Era “persona buona e giusta”, secondo l’evangelista, si fa trovare al momento giusto, ci mette la faccia, prende il coraggio di andare personalmente da Pilato per richiedergli il cadavere di quel “re dei Giudei” che i profeti annunciavano come destinato a risorgere.
E lui è il primo a crederci nella promessa della Resurrezione. Affascinato dalla parola del Maestro e soprattutto dalla sua vita, ha maturato la sua adesione, la sua sequela. Confida che sfuggirà alla morte, il terzo giorno…
L’Arimateo ci insegna anche a non fuggire il “caso serio” della vita, ovvero a fare i conti con la morte, con quella serietà che impone il momento del distacco. A proposito, in molti siamo rimasti colpiti questa settimana dalla pubblicazione delle ultime frasi dell’imprenditore e politico Silvio Berlusconi prima di morire: “Vedi, la vita è così…Fai, fai, fai e poi te ne vai”, è stata la confidenza riferita dalla figlia. Una constatazione che in verità per noi sottintende una domanda: “E poi?”.
Non è tutto finito, comincerà la nostra vita piena. Si mette via il corpo, ma noi continueremo a vivere: così è nel mistero della Pasqua cristiana.
È la fede dimostrata in anticipo dal gesto di Giuseppe d’Arimatea, quest’uomo del sinedrio che faceva il mercante di una piccola città (lo ha raccontato sulla base di ricerche archeologiche lo scrittore Cesare Merlini) e che potremmo forse interpretare anche come un testimonial in quest’Anno di capitale europea. Un volontario che dà il buon esempio: un “chiamato” dal servizio agli altri, una sentinella del bene comune, un esempio che moltiplica la cultura della cura. Nessuno lo ha mai intervistato, ma nel nome del Nazareno, anche lui forse avrebbe risposto che “la felicità è far felici gli altri”.
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