Certamente la vittoria a valanga di Vladimir Putin nelle elezioni presidenziali russe non è materia da bookmakers. Scommettere su questa specie di referendum putiniano sarebbe un autentico suicidio. Tutto era prevedibile, tutto si è svolto come da copione, tutto è stato organizzato per non avere sorprese di sorta. Le poche file ai seggi, alle 12 di domenica, richieste dalla moglie di Navalny per dimostrare il dissenso si sono perse nei meandri di quell’87% di consenso che il popolo russo ha attribuito per la quinta volta al nuovo Zar. Ben 9 cittadini su 10 lo hanno promosso al massimo seggio per i prossimi sei anni (e forse anche altri sei, come la costituzione da lui modificata gli permetterebbe). Putin ha quindi potuto affermare che tale massiccia legittimazione è il fondamento della stabilità politica della Federazione russa. In realtà questa è stata l’elezione meno competitiva della storia moderna della Russia: gli altri tre candidati, cui sono andate le briciole, erano poco più che controfigure del potere dello zar.
Vi sono varie spiegazioni sulla forza politica di Putin.
La prima è che nella popolazione russa prevale l’indifferenza e il conformismo. Meglio un leader che pensa per noi che il caos politico dei tempi di Boris Yeltsin. La seconda è che il regime terrorizza (e uccide) gli oppositori e non permette mai che arrivino a candidarsi: ci pensano le commissioni elettorali ad espellerli prima. La terza è che la nazione è in guerra, aggredita come continua a ripetere Putin da un’Occidente che ne vuole la sottomissione: ottimo argomento per suscitare il patriottismo e il senso di resistenza al nemico tipici della storia russa dai tempi di Napoleone.
Putin, quindi, ha potuto constatare che la verticale di potere che lo circonda è ancora solida. Una conferma cui teneva particolarmente se si pensa che solo alcuni mesi fa il suo potere era stato messo in forse dalla ribellione di Yevgeny Prigozhin, il capo della Wagner, che con le sue truppe era arrivato a pochi chilometri da Mosca. Poi i due, amici e complici di un tempo, si sono messi d’accordo e la rivolta si è spenta. Ma anche Prigozhin si è “spento” dopo l’attentato al suo aereo certamente ispirato dal capo del Cremlino.
Oggi Putin non ha apparentemente nemici che lo possano minacciare dall’interno, poiché è solo da una rivolta di palazzo che potrebbe essere messo in forse il suo potere. Potere che all’indomani delle elezioni può essere utilizzato da Putin per giustificare la continuazione della sua “operazione militare speciale” contro la ribelle Ucraina. Difficile quindi illudersi che si possano aprire spazi per un tanto auspicato (da noi europei) tavolo di negoziato per fare cessare la guerra sul fronte ucraino. Anche perché la guerra contro Kyiv non è per cacciare i “nazisti” dal governo, come continua a ripetere lo zar, ma per indebolire l’Unione Europea primo vero nemico del regime di Putin.
È proprio l’attrazione che la democrazia dell’UE esercita sui paesi una volta sotto il dominio dell’Urss e oggi alla ricerca di un’adesione, la più stretta possibile, a Bruxelles. Discorso che vale, naturalmente, per l’Ucraina i cui guai con Mosca sono iniziati con la rivolta di Piazza Maidan nel 2013, allorché il governo dell’epoca respinse l’accordo di cooperazione con l’UE su ordine di Putin.
Ma vale anche per la Georgia, assalita nel 2008 dallo stesso Putin. Timore che si estende alla Moldavia e all’Armenia. Insomma, a tutti quei paesi che vogliono sfuggire all’influenza dittatoriale di Vladimir Putin.
Ciò crea un’enorme responsabilità politica per l’UE e anche l’esigenza di respingere le continue interferenze di Mosca sulle nostre elezioni e le nostre politiche comuni. Una responsabilità che oggi ci spinge anche a riflettere sulla eventualità di una possibile difesa comune per fare fronte, non solo politicamente o con le sanzioni economiche alle azioni militari della Russia. Una Russia che sta cercando inoltre di costruire una sua posizione ideologica nel grande disordine internazionale di questi ultimi due anni. È il cosiddetto “Putinismo”, uno schema volto a confrontarsi con il sistema democratico dell’occidente. La Russia si erige infatti a difensore del tradizionalismo conservatore, in sostegno della famiglia, della religione e della moralità pubblica. Inoltre, essa sostiene a spada tratta la sovranità assoluta dello stato, del nazionalismo e del patriottismo che tende a difendersi da tutte le influenze esterne, da quelle dell’economia globale a quelle finanziarie cercando di sottrarsi allo strapotere del dollaro e dell’euro.
Per di più Mosca sostiene fortemente l’aggregazione di potenze antioccidentali, assieme alla Cina, all’India al Brasile e al Sud Africa. Non per niente da gennaio questo raggruppamento, definito Brics, si è allargato ad altri cinque paesi del cosiddetto “Global South”: dagli Emirati all’Arabia Saudita, dall’Egitto all’Etiopia fino all’Iran. Una specie di “insalata russa” in realtà, poiché India e Arabia Saudita non sono paesi poi così decisamente antiamericani e fra Egitto ed Etiopia non corre davvero buon sangue, tanto per fare qualche esempio.
Ma è chiaro che sulla base di queste premesse, un Putin ulteriormente rafforzato non è una buona notizia né per Kyiv, né per Bruxelles e neppure per Washington che vivrà le prossime elezioni presidenziali sotto l’incubo di eventuali interferenze da parte di Mosca.
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