10 marzo 2024 – Domenica IV Quaresima B
2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
«Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Gv 3,16
In cima al Monte Nebo (Giordania), proprio nel punto panoramico dal quale secondo il Deuteronomio Mosè guardò la Terra Promessa da lontano prima di morire (cfr. Dt 34,1), sorge una grande croce che richiama il serpente da lui innalzato nel deserto per guarire gli israeliti che non si erano fidati di Dio. L’evangelista Giovanni, riprendendo questo episodio del Libro dei Numeri (cfr. Nm 21,8) lo presenta come il simbolo dell’amore smisurato ed esagerato col quale Dio ci ha amato, innalzando il suo Figlio unigenito e donandolo per noi: un Figlio innalzato sulla croce per risanare l’intera umanità e illuminare le tenebre del mondo.
La premura di Dio per il suo popolo, per l’umanità intera, per ciascuno di noi si presenta in molti modi nel corso della storia e non lascia nulla di intentato pur di suscitare la conversione e il rinnovamento della vita. L’ha esperimentata per primo il popolo d’Israele, attraverso l’annuncio dei profeti: «Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora» (2Cr 36,15). L’ha esperimentata perfino attraverso l’esilio, una vicenda da leggere nell’ottica della correzione pedagogica, che fa riconoscere al popolo l’importanza di mantenersi fedele a Dio in ogni situazione ed in ogni circostanza storica. L’ha esperimentata attraverso il ritorno nella terra promessa, segno che la fedeltà di Dio non viene mai meno.
La premura di Dio per Israele e per l’umanità raggiunge però il vertice nella vita e nell’azione di Gesù Cristo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna» (cfr. Gv 3,16). Che senso ha infatti l’Incarnazione? Essa porta in sé e manifesta il desiderio di Dio di comunicare all’uomo la salvezza, la vita eterna, la felicità, la pienezza dell’amore… E questa salvezza ci viene regalata a patto che crediamo in Gesù Cristo, lo accogliamo in modo personale e ci rendiamo disponibili a lasciarci trasformare dal suo amore gratuito. Ce lo annuncia l’evangelista Giovanni e ci aiuta ad approfondire questa riflessione l’apostolo Paolo: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (cfr. Ef 2,4-5). Allora scopriamo che tutta la nostra esistenza è un frutto della bontà di Dio: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (cfr. Ef 2,10).
Sul monte della Verna, otto secoli fa, la notte prima di ricevere le stimmate (tra il 13 e il 14 settembre 1224), Francesco d’Assisi pregava e chiedeva di poter sperimentare l’amore smisurato ed esagerato che Gesù aveva avuto nei nostri confronti arrivando a dare la sua vita e morire sulla croce per salvarci (cfr. Fioretti, Terza considerazione sulle stimmate: FF 1919). Oggi noi possiamo pregare con le parole della liturgia: “O Dio, ricco di misericordia, che nel tuo Figlio, innalzato sulla croce, ci guarisci dalle ferite del male, donaci la luce della tua grazia, perché, rinnovati nello spirito, possiamo corrispondere al tuo amore di Padre” (Messale Romano, colletta domenicale TQ4B).
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