Era il principale oppositore del regime di Putin e il regime lo ha eliminato. Aleksej Navalny è morto il 16 febbraio scorso a 47 anni nel carcere più duro della Siberia. Ha lasciato una moglie, Yulia, due figli, Daria e Zahar, e i genitori, Lyudmila e Anatoly. Una domanda se la sono posta in tanti: perché nel gennaio di tre anni fa era ritornato in Russia? Stava al sicuro in Germania, perché era rientrato sapendo che pendeva su di lui un mandato di arresto? Sapendo che anche dal carcere avrebbe continuato ad opporsi a Putin, alla corruzione e alle repressioni? E sapendo, anche per aver subito due tentativi di avvelenamento, che Putin, quando voleva, gli oppositori li eliminava non solo li incarcerava? Una domanda dettata dal buon senso. Il fatto è che la coscienza ha delle ragioni che il buon senso non ha. Talvolta negli esseri umani c’è una voce interiore che ha la meglio sul buon senso. E così, Aleksej Navalny, personaggio vulcanico, creativo e irriverente, politico convertitosi alla liberaldemocrazia dopo un passato di nazionalista estremista e xenofobo e che dal carcere criticherà duramente l’invasione dell’Ucraina come frutto dell’“autoritarismo imperiale”, ha scritto una pagina indelebile nel perenne scontro tra la coscienza del singolo e il potere che attraversa tutta la storia umana. Quando il potere, con i suoi apparati repressivi, le sue leggi indecenti, la sua propaganda, i suoi reparti in divisa dispiega la sua forza per schiacciare i singoli, la loro libertà, la loro dignità, può trovarsi di fronte a qualcuno che lo affronta a viso aperto, forte di nulla se non della parola e del coraggio. Che si fa beffe del numero, che non si guarda intorno per vedere quanti sono con lui. Qualcuno per il quale c’è qualcosa che vale più della vita. E quel qualcosa è la fedeltà alla propria coscienza, a quella voce interiore che gli impone di stare con la verità, con la libertà, con la giustizia, con Dio o con dei principi morali, costi quel che costi. Perché il senso della vita vale più della vita. Navalny non poteva starsene in esilio al sicuro mentre il suo popolo pativa la repressione. La fedeltà alla sua missione politica glielo impediva. La sua coscienza glielo impediva. Nient’altro glielo impediva. Anzi, tutti lo spingevano a guidare l’opposizione da lontano e a prepararsi al momento in cui il tiranno sarebbe caduto e lui sarebbe potuto tornare per guidare la rinascita democratica della Russia. Sarebbe stata una scelta ragionevole, di buon senso. Ma la coscienza ha delle ragioni che il buon senso non ha.
Anche Vladimir Kara-Murza, intellettuale, oppositore del regime di Putin, che aveva duramente criticato l’invasione dell’Ucraina e che viveva al sicuro in esilio decise di rientrare in Russia nell’aprile del 2022 sapendo di andare incontro a una sicura condanna (si veda il nostro articolo su “Vita Trentina” del 7 maggio 2023). L’hanno condannato addirittura a 25 anni di carcere. “Non mi sentirei in diritto morale di criticare questo regime e di chiedere ai miei compatrioti di opporsi, standomene seduto in un luogo lontano e sicuro. È una questione di etica e di responsabilità”, ha detto in una recente intervista che gli hanno concesso di fare dal carcere. Etica, responsabilità. La coscienza parla, si impone. Kara-Murza ha tre figli piccoli. E loro? Era quello che dicevano anche al sudtirolese Josef Mayr-Nusser nel 1944 i suoi commilitoni quando, arruolato nelle SS, decise di rifiutare il giuramento di fedeltà a Hitler sapendo che andava incontro alla condanna a morte. Non pensi a tuo figlio che ha appena un anno e a tua moglie? È quello che tanti sudtirolesi continuano a rimproverargli anche se la Chiesa l’ha proclamata beato. “Non posso giurare a Hitler. La mia fede di cristiano me lo impedisce”, diceva Mayr-Nusser. La coscienza parla, si impone. C’è qualcosa che vale più della vita e più degli affetti più cari. Anche l’austriaco Franz Jägerstätter, che aveva tre figliolette piccole, rifiutò di partecipare alla guerra nazista perché la sua coscienza di cristiano glielo vietava. Non pensi alle bambine? A tua moglie? Anche la Chiesa non lo comprese. Ma lui non poteva andare contro la sua coscienza. E fu giustiziato. E come non ricordare Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante che nel 1939 decise di rientrare in Germania dagli Stati Uniti per aderire alla Resistenza antinazista e condividere fino in fondo il destino e le terribili responsabilità del suo popolo? “Non perché noi crediamo di essere necessari (a Dio?)”, aveva scritto, “ma semplicemente perché là è la nostra vita e perché noi la distruggeremmo se non ci trovassimo in prima fila”. Finirà sul patibolo.
Aleksej Navalny, così diverso da questi testimoni di coscienza cristiani, che onoriamo come esemplari, era fatto della stessa pasta. Quella pasta miracolosa che continua a sprigionare nella storia la forza della coscienza libera che affronta, consapevole delle conseguenze, la forza solo apparentemente invincibile del potere dispotico. E che costituisce per tutte le coscienze un appello che non lascia tranquilli. Navalny aveva detto: “Il mio messaggio, se dovessi essere ucciso, è semplice: non arrendetevi. Se dovessero decidere di uccidermi, vuol dire che siamo incredibilmente forti. Ci capita di non avere davvero la consapevolezza di quanto possiamo essere forti. L’unica cosa che serve al male per trionfare è che il bene non faccia nulla”.
(Vincenzo Passerini cura il blog itlodeo.info)
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