Sono bastati 28 secondi nel telegiornale russo della sera per dare la notizia della morte di Alexei Navalny. Un servizio di secondo piano fra gli altri. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto da noi nel mondo occidentale dove oltre alle breaking news che hanno interrotto i programmi in corso si è da subito dedicata una grandissima copertura alla scomparsa del leader dell’opposizione al regime del Cremlino. è questo un fatto che di per sé misura in modo evidente la distanza fra le nostre democrazie e la dittatura di Vladimir Putin.
L’improvvisa morte di Navalny nel carcere di sicurezza collocato in Siberia, oltre il circolo polare artico (soprannominato a ragione “Polar Wolf” a sottolinearne le condizioni meteorologiche estreme) ha rappresentato per noi occidentali un vero shock.
A due anni di distanza, il 24 febbraio del 2022, data dell’invasione russa in Ucraina, il 16 febbraio di quest’anno ci ha riportati all’emozione di allora, giusto per ricordarci con chi abbiamo a che fare e quali rischi comporti la “stanchezza” occidentale nel sostenere la guerra di difesa di Kyiv. Eppure la morte di Alexei Navalny era data per scontata. Fin dal giorno, nel gennaio del 2021, del suo coraggioso ritorno a Mosca dalla Germania, dove era stato salvato in extremis da un precedente tentativo di avvelenamento in Siberia, la vita del principale nemico politico di Putin era nuovamente in pericolo. A testimoniarlo l’immediato arresto all’aeroporto di arrivo e la successiva condanna a 19 anni per il reato di “estremismo” con la condanna a scontare la pena nell’estrema periferia della Russia. Sapevamo infatti come la strada dell’opposizione al nuovo zar russo fosse già lastricata di vittime di oppositori sia in patria che all’estero.
A rendere paradossalmente ancora più evidente la tendenza di Putin di liberarsi in modo violento degli oppositori è stata la morte per un “incidente” aereo il 23 agosto del 2023 di Yevgeny Prigozhin, il capo della milizia Wagner, prima strettissimo alleato e sodale del boss del Cremlino e poi ribelle a causa del deludente andamento della guerra in Ucraina. L’atto di rivolta, anche se rientrato per inconfessabili compromessi fra i due, si è concluso con la morte violenta di Prigozhin: questo il destino dei nemici di Putin. Ci si sarebbe aspettati, dopo la morte di Navalny, una reazione massiccia da parte dell’opinione pubblica russa.
Nulla di tutto ciò è accaduto, a parte qualche sporadica dimostrazione di lutto con fiori portati coraggiosamente da alcuni cittadini sul monumento ai caduti in guerra. Manifestazioni, come abbiamo visto, immediatamente represse dalla polizia e dai giudici con alcuni giorni di carcere ai più riottosi.
In effetti i due shock, quello della guerra e il successivo della morte di Navalny, non hanno visto il nascere di un’aperta opposizione al Cremlino. C’è da chiedersi infatti come le madri o le mogli degli oltre 300mila caduti sul fronte ucraino non abbiano dimostrato la loro opposizione alla guerra: anche qui solo poche azioni ed isolate manifestazione di dolore.
Semmai hanno fatto una certa impressione nei primi giorni del conflitto gli esodi di migliaia di giovani russi all’estero per sfuggire alla chiamata di leva. Ma null’altro. A leggere le statistiche di una delle poche istituzioni indipendenti, il Levada Center, si apprende che l’opposizione di Navalny al regime non era così popolare: basti pensare che il 23% dei cittadini di quel paese neppure sapevano dell’esistenza di questo oppositore. Si avverte quindi la sensazione netta del fallimento della società civile russa di resistere apertamente al potere dello stato. è una società che le vicende della storia, non solo recente, hanno indurito, reso cinica e indifferente alle lotte di potere. è una società anche molto conservatrice e alimentata da un nazionalismo estremamente sentito a livello di opinione pubblica e gestito con abilità dal regime di turno, sia esso stato rappresentato di volta in volta dallo Zar o da Stalin o oggi da Putin. Quindi la vicenda di Navalny non fa eccezione e rende ancora più difficile la reazione dell’Occidente alle mosse di Putin. Perché la morte di Navalny, come la guerra all’Ucraina, sono tutti test che il regime putiniano indirizza all’occidente per valutarne la capacità di resistenza alle sue ambizioni.
Va ricordato a questo proposito che all’atto dell’arresto a Mosca di Navalny, Joe Biden da poco presidente Usa aveva mandato un pubblico avvertimento a Putin sulle “conseguenze devastanti” che l’eventuale morte in carcere di Navalny avrebbe portato con sé.
Oggi dobbiamo chiederci quali conseguenze Biden e gli europei possano escogitare. Ulteriori sanzioni economiche contro Mosca servono a ben poco, come hanno dimostrato tutte le misure restrittive prese in questi due ultimi anni.
Solo due mosse possono essere “devastanti”. La prima sarebbe quella di sbloccare i grandi aiuti economici e militari promessi da Biden all’Ucraina per resistere all’invasione sempre più minacciosa della Russia. Ma per arrivare a ciò è necessario l’assenso del Congresso americano che a causa dei repubblicani di Trump stenta a votare la legge.
La seconda mossa, questa volta da parte europea, consisterebbe nell’utilizzare i quasi 300 miliardi di dollari della Banca Centrale Russa congelati nei nostri istituti finanziari da devolvere alla ricostruzione postbellica dell’Ucraina. Ce la faranno le democrazie occidentali a resistere alle provocazioni di Putin?
Fino ad ora la reazione è stata abbastanza unitaria. Ma il futuro è certamente molto più complicato e incerto.
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