I trattori scesi in piazza hanno rilanciato il tema della centralità dell’agricoltura in una società che ha smarrito quasi del tutto il proprio rapporto con la terra e che si trova ad affrontare una crisi economica che mette a nudo la fragilità sociale e culturale dell’intera Europa.
In Germania il livello di partecipazione al dissenso ha toccato dei picchi che non si erano mai verificati dal dopoguerra, mentre in Francia la protesta si è accompagnata a rivendicazioni di carattere sociale che sono sfociate in aperta violenza.
Come in tutte le manifestazioni spontanee, anche all’interno delle mobilitazioni di chi ha voluto “fermare” i trattori si confrontano culture ed ideologie diverse, così come posizioni e proposte difficilmente conciliabili quando si parla di sostenibilità e rapporto con i consumatori. Ma l’origine del malcontento è chiara e deriva innanzitutto dalla mancanza di vicinanza verso i piccoli produttori da parte delle classi dirigenti che si sono succedute in questi ultimi decenni.
La rottura è infatti avvenuta sia sul piano politico che sindacale e ha preso di mira la distanza che separa il decisore pubblico dal piccolo imprenditore agricolo che in questo modo si è sentito abbandonato – per non dire tradito – da un sistema burocratico e professionale sempre più legato ai grandi interessi delle multinazionali, delle grandi imprese, dell’agribusiness e dell’industria agroalimentare. Sarebbe inoltre fuorviante cercare le cause di questa mobilitazione nella presunta avversità del mondo rurale nei confronti delle misure ambientali dell’UE. In questo caso si tratta di provvedimenti che sono ancora nei cassetti dei burocrati di Bruxelles, mentre quello che rappresenta una certezza è il malcontento e la rabbia per la caduta dei redditi delle imprese agricole. Il peso dei rincari dei carburanti e delle materie prime dovuti alla guerra e al blocco degli approvvigionamenti russi, accompagnati dall’aumento dei tassi di interesse sui mutui ed esacerbati dalle speculazioni finanziarie legate ai derivati, hanno creato un divario sempre più ampio fra costi e ricavi.
Tutto questo si affianca agli effetti perversi della deregolamentazione del settore primario e dell’abbattimento delle misure protezionistiche introdotte in Europa dalla riforma Mac Sherry dei primi anni Novanta che di fatto hanno consentito la liberalizzazione del mercato agricolo e la conseguente introduzione a basso costo di prodotti extraeuropei, spesso privi di adeguate certificazioni e garanzie per i consumatori. Queste merci arrivano oggi sulle nostre tavole favorite dalla diminuzione del potere di acquisto delle famiglie e da un sistema della grande distribuzione e dell’intermediazione che ha fatto lievitare il loro prezzo fino al 300 per cento con margini sempre più risicati per le imprese.
Di fronte a questa situazione è fondamentale riconsiderare il valore dell’agricoltura e delle piccole aziende famigliari abbandonando i tentativi, purtroppo egemoni a livello politico e culturale, di affidare il futuro dell’agricoltura al modello industriale, agli OGM e alle nuove tecnologie. Se oggi tanti politici e opinionisti esprimono un atteggiamento euroscettico e di aperto sostegno nei confronti di queste proteste dovrebbero fare un obiettivo esercizio autocritico e di memoria ricordando il ruolo bipartisan degli opposti schieramenti nel favorire l’idea di un’agricoltura senza i piccoli contadini e condizionata dai modelli intensivi, dalle privatizzazioni e dalla supposta autoregolamentazione dei mercati.
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