Con grande incertezza e crescenti contrasti stiamo avvicinandoci al Consiglio europeo del 14 dicembre, destinato a rappresentare un passaggio cruciale per il futuro dell’UE. I due temi principali da affrontare sono infatti la decisione di concedere a Ucraina e Moldavia lo status ufficiale di paesi candidati all’adesione ed in aggiunta una profonda modifica del rimanente bilancio settennale dell’Unione (valido fino al 2027) con l’accantonamento di 50 miliardi di Euro per la rinascita economica della stessa Ucraina.
Il clima politico per arrivare a queste decisioni è ben lontano dall’essere dei migliori, per varie ragioni. La prima riguarda ovviamente la guerra in Ucraina. Dopo quasi due anni di battaglie cruente il confine del Donbass sembra ormai congelato. L’errore di Volodymyr Zelensky di annunciare una grande controffensiva si sta ritorcendo contro l’Ucraina a causa degli scarsi risultati.
Sembra incredibile che la storia dei conflitti passati non insegni quasi nulla. La vicenda della guerra persa in Vietnam con l’annuncio anticipato degli americani sulle successive mosse da fare (la cosiddetta dottrina McNamara) doveva costituire un esempio da non seguire. Invece è successo anche a Kyiv con la conseguenza di una pubblica delusione e la crescita di una contesa politica interna testimoniata sia dalla intervista all’Economist del comandante in capo dell’esercito Valerij Zaluzneyj sullo stallo delle operazioni militari che dalla recente rottura dell’unità iniziale fra Zelensky e il suo predecessore Petro Poroshenko.
Questo stato di cose non fa altro che accrescere il malessere nelle opinioni pubbliche e nei governi dell’Unione europea mettendo a dura prova l’unità dimostrata fino ad oggi, anche con la concessione di grandi aiuti militari. Per di più il disagio è acuito sia dal diffondersi nell’Unione di forze populiste anticomunitarie e filo putiniane anche in paesi, come l’Olanda, ove un estremista come Gert Wilders riesce a piazzare al primo posto il suo partito razzista e isolazionista.
Il recente convegno, voluto da Matteo Salvini, di queste forze politiche alla Fortezza da Basso a Firenze ne è un ulteriore preoccupante segno. Tutti costoro vogliono bloccare gli aiuti all’Ucraina. A guidarli anche alcuni governi dell’Est Europa fra i quali primeggia l’Ungheria assieme alla Slovacchia. Perfino l’antirussa Polonia, che da poco ha rimesso in carreggiata il filoeuropeo Donald Tusk vincitore delle elezioni, ha assunto atteggiamenti anti-ucraini bloccando l’importazione (a prezzi concorrenziali) di merci alimentari da Kyiv. Una specie di “guerra del grano” che in breve tempo si è estesa a tutti i paesi dell’est che confinano con l’Ucraina. Sono davvero lontani i tempi in cui i polacchi accoglievano a braccia aperte i profughi ucraini offrendo loro ospitalità e aiuti di ogni genere.
È in questo spirito affaticato e contraddittorio che i 27 dovranno prendere una decisione di tale importanza, come quella di aprire ufficialmente le porte a Kyiv e Chisinau offrendo l’avvio di negoziati. Trattandosi della prima guerra nel cuore dell’Europa dal 1945 ad oggi sembrerebbe più che ovvia una risposta positiva da parte dell’Unione, anche di fronte alle numerose perplessità nate in questi ultimi tempi. Chi può davvero negare questo riconoscimento politico ad un paese che sta combattendo anche per noi nel frenare l’espansionismo della Russia di Vladimir Putin?
Per di più il secondo fronte di guerra apertosi in Medio Oriente con il conseguente gravoso impegno degli Usa di sostenere (e limitare) Israele ci mette di fronte ad un’ulteriore responsabilità: agire per conto nostro nell’affrontare la questione ucraina portandola possibilmente a buon fine. Da un certo punto di vista questa può essere vista come un’opportunità per l’UE di dimostrare la propria volontà di divenire un vero attore politico globale a cominciare proprio dal teatro europeo. Ciò significa tuttavia che la decisione sull’allargamento implicherà una profonda riforma dell’UE. Se fino ad oggi nelle grandi crisi ci siamo sempre fatti guidare da Washington, in futuro dovremmo dotarci degli strumenti e delle politiche necessarie per agire da soli, a cominciare dalla difesa europea. Anche perché, se l’allargamento avrà successo, l’UE finirà per confinare per intero con la Russia con il rischio concreto di assistere ad una replica della vecchia cortina di ferro. Quindi riavviare da parte dell’UE una politica di allargamento, che dovrà necessariamente includere anche i paesi dei Balcani, significa anche decidere il proprio assetto istituzionale futuro, cosa che né le forze politiche anticomunitarie né alcuni paesi come l’Ungheria sono pronti a digerire.
Di qui la corsa a convincere il riluttante Viktor Orbàn, prototipo di tutti gli anticomunitari, a rinunciare al diritto di veto. Lo stesso presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è precipitato a Budapest per cercare una via di compromesso. Via che potrebbe essere rappresentata da una ventina di miliardi di euro di fondi di coesione bloccati da Bruxelles per le contese sul rispetto dello stato di diritto in Ungheria e un’altra decina in fondi del PNRR ungherese anch’essi bloccati per gli stessi motivi.
Basterà? Già alcune voci stanno circolando in Europa su un eventuale spostamento di questa drammatica decisione ad un successivo Consiglio europeo. Una vecchia pratica, quella del rinvio delle decisioni comunitarie. Ma questa volta il suo significato sarebbe dirompente. Dimostrerebbe innanzitutto la frammentazione fra i 27 e l’incapacità di prendere decisioni epocali. Sposterebbe la decisione nell’anno elettorale del Parlamento europeo (a giugno) scatenando e rafforzando ancora di più le forze anti europee.
Infine, aumenterebbe in modo radicale l’isolamento di un paese, l’Ucraina, ancora nel pieno di una guerra ingiusta. Sarebbe per Vladimir Putin il riconoscimento palese della sua vittoria militare-politica e per converso la conferma della debolezza e della scarsa credibilità dell’Europa comunitaria.
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