Un vaccino contro la guerra? L’amore di una mamma

Vincent Van Gogh, Il buon samaritano, particolare

Lo spunto:

Un dottore chiese a Gesù: “Chi è il mio prossimo”? E Gesù: “ Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo lasciarono mezzo morto, Due religiosi lo videro, ma proseguirono oltre, dall’altra parte.
Invece un Samaritano lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno.
(Lc. 10, 25)

Lo spunto di questo “Sentieri” è la parabola evangelica di Luca, inviataci con un commento dal dottor Dino Pedrotti, il neonatologo che ora vede la sua missione e vocazione offesa dalle guerre che – dall’Ucraina a Gaza – hanno proprio nei bambini, inermi e innocenti, le prime vittime.

Se contro l’epidemia del Covid – osserva Pedrotti, richiamando l’antica invocazione “a peste, fame et bello libera nos Domine”- l’umanità e la scienza sono riusciti a trovare un vaccino, contro la pestilenza delle guerre invece un vaccino non è stato ancora trovato”. Non prende questo fatto come una scusa ma come un nuovo stimolo all’impegno dei pediatri e di tutti i genitori, le madri, le donne soprattutto, perché si facciano essi stesso vaccino, ovvero Samaritani, educando i figli alla pace e togliendoli ad una cultura di aggressività, fin troppo diffusa anche nei media informatici.

Farsi strumento di pace – prosegue il neonatologo – è l’opposto che lasciarsi trascinare dalla cultura del branco caratteristica dei giovani mammiferi e delle scimmie antropomorfe, insita nel Dna. Eppure i Dna, come ha confermato l’epigenetica, non sono immutabili e possono cambiare a seconda dell’ambiente in cui un piccolo bambino si trova a vivere, delle attenzione e degli affetti che gli vengono rivolti; per questo è così decisiva la figura della madre nei primi anni di vita, così da stemperare l’influenza del capobranco che di solito è il padre.

Gli affetti e la cura materna nella gestazione e nei primi anni sono il vero vaccino per la pace, contro le guerre, per combattere le quali toccherà poi anche agli adulti fare la propria parte: farsi Samaritani, non uomini del branco, curare e prendersi cura, non gettare vite umane nella mischia o abbandonarle alla violenza dei predoni. In questo senso è illuminante il parallelismo che Pedrotti traccia fra il buon Samaritano e il buon pediatra, anche se – precisa Pedrotti – il merito della”bontà”, più che all’uomo che ha soccorso il membro di un popolo considerato nemico, andrebbe attribuito alla madre che l’ha educato alla pace.

Ma che deve fare un pediatra samaritano di fronte ad un bambino ferito in guerra? Pedrotti segue passo per passo la parabola evangelica, ma anche i requisiti che il comportamento del Samaritano deve avere se vuole davvero trasformarsi in un “vaccino “ sociale contro le guerre a difesa dei bambini più indifesi e innocenti.

Come il Samaritano evangelico “vide e si fermò”, così il pediatra – commenta Pedrotti – vede chi sta male e si ferma, perché è stato sollecitato a “mettersi nei panni dei più deboli”, ed è pediatra proprio per curarli meglio. Altri, dotti e sapienti, vedono ma non si fermano, non scendono verso un bambino sofferente , salgono al tempio accademico, ospedaliero, o del potere politico.
“E si commosse”. Passaggio facile per chi si ferma in alto e poi sta fermo… Il nostro pediatra invece si commuove sì, ma poi “si fa bambino e si mette nei suoi panni. Come se fosse suo figlio. “E scese”. Si passa dalla commozione alla pratica per avere contatti più ravvicinati. “E lo curò e risalì con lui”. Il pediatra lo porta sul suo mezzo di trasporto, interrompe il suo viaggio, perde tempo prezioso per poterlo curare meglio. E lo portò al sicuro, all’ospedale più vicino. Lo fa curare al meglio. Dai migliori specialisti disponibili, nelle sedi più specializzate. “E ritornò (e pagò)”. Il pediatra rivede a distanza il bambino, e trova genitori amici. Poi può anche studiare il caso, se importante, e segnalarlo alla comunità. Il Samaritano lo curò senza pretendere riconoscenza, anche se era nemico dei giudei. Lo curò bene solo perché “farlo era giusto” come diceva anche il laico Gino Strada. E duemila anni fa Gesù lo aveva detto di amare tutti, anche i nemici.

Che conclusioni trarre dalla parabola?, si chiede Dino Pedrotti. Il Samaritano vide l’uomo ferito, si commosse e si fermò a curarlo, ma non si convertì certo in quel momento, ma era già predisposto alla sua azione, da come l’educazione e gli affetti, da piccolo, da piccolissimo avevano educato il suo Dna. Il Dna è il motore della vita, l’imprinting della vita e del carattere in ogni cellula vivente. è “naturale“ secondo il suo Dna che ogni lupacchiotto, diventato autonomo, segua Capobranco e lupo padre per difendere confini e famiglie. Negli “umani è “normale” che figli di mafiosi e ricconi violenti seguano il padre, partecipino poi alle “lotte del branco nel branco”, e anche alle guerre, da soldati … Ma non sempre. Da sempre, durante una guerra c’è anche una “cultura di pace” (che però non fa storia ). In ogni guerra la maggioranza delle donne, soprattutto se madri, rifiuta la violenza, aiuta le famiglie più povere e auspica la pace, anche con la preghiera. Gli ormoni femminili (a base Dna) e le loro personalità più dolci le orientano meno all’aggressività e più alla fraternità. A diventare “samaritane” con i figli. Solo la mamma umana ha coscienza del suo poter essere una “mamma responsabile”, dal concepimento e dalla gravidanza fino alla prima infanzia del figlio (aiutata il più possibile da un padre corresponsabile). Le fondamenta della personalità futura di un figlio si formano fin dall’inizio della sua vita in utero, più o meno solide, con nette possibilità di cambiarle se cambiano le relazioni con l’ambiente. E nel Dna del figlio restano quegli “anticorpi antiviolenza” che ha coltivato con sua mamma.

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