Non c’è pace nell’Europa dell’Est. Non occorre pensare solo alla barbara e incomprensibile aggressione militare russa all’Ucraina per rendersene conto. È anche l’intera area caucasica ad essere in ebollizione. Dalla Georgia alla Moldavia, dall’Armenia all’Azerbaijan le sfide e i malesseri si moltiplicano.
Proprio da questi ultimi due Paesi è nato l’ennesimo conflitto. In realtà Armenia e Azerbaijan sono in guerra dal 1990 ai primi accenni di dissoluzione dell’Unione Sovietica che li inglobava e dominava sotto il ferreo controllo comunista. Una volta rotto questo equilibrio dittatoriale venivano al pettine le ragioni di una contesa che da tempo covava sotto le ceneri. Nel caso dei due Paesi in questione l’oggetto del contendere si chiamava (e si chiama) Nagorno-Karabakh, una regione più piccola del nostro Molise oggi ridotta a 120mila abitanti ed incuneata all’interno dell’Azerbaijan con un solo corridoio di transito, il Lachin, che la collega all’Armenia. Il paradosso è che la comunità internazionale considera il Nagorno come parte dell’Azerbaijan anche se la popolazione autoctona è di origine armena. Di qui ben tre guerre fra i due Paesi per riaffermare la sovranità sulla piccola enclave.
La prima guerra del 1992 ha visto una schiacciante vittoria degli armeni con la conseguente cacciata dalla regione degli abitanti azeri che lì vivevano ai tempi dell’ombrello sovietico. Le scaramucce sono continuate per anni finché nel 2000 le sorti della guerra hanno volto a favore dell’Azerbaijan obbligando ben 90mila armeni a scappare da un territorio sempre più ristretto e circondato dalle truppe di Baku, la capitale dell’Azerbaijan.
A cercare di portare sotto controllo la situazione è quindi intervenuto Vladimir Putin, allora grande alleato e protettore dell’Armenia, offrendo corpi di pace russi (peacekeepers) per dividere i contendenti e salvare quello che rimaneva del Nagorno. Ma di Putin non è forse il caso di fidarsi troppo, tanto che il 19 settembre scorso le truppe azere hanno bombardato il Nagorno per due giorni consecutivi e chiuso definitivamente il corridoio di Lachin. Poi lo zar del Cremlino ha negoziato anche un cessate il fuoco che però ha implicato il completo disarmo delle milizie di separatisti armeni e il loro immediato scioglimento: come dire che il Nagorno-Karabakh sta per scomparire, o quasi.
Il voltafaccia di Putin si spiega con un parziale avvicinamento del governo di Erevan, la capitale dell’Armenia, agli americani e all’Unione Europea e anche perché il premier armeno Nikol Pashinyan ha condannato l’invasione dell’Ucraina e per di più ha aderito alla Corte Penale Internazionale che ha emesso un mandato di cattura contro Putin per crimini contro l’umanità. Insomma una sfida inaccettabile per Putin che si è avvicinato all’Azerbaijan e ha messo nei pasticci Pashinyan accusato dai separatisti armeni di averli abbandonati accettando una resa pressoché incondizionata. Ma questi mutamenti di schieramento politico spiegano solo in parte il dramma degli armeni del Nagorno. Si tratta di ragioni sia antiche che più vicine nel tempo.
Fra le prime va tenuto in debito conto il fattore religioso. L’Armenia è un paese cristiano (sono famosi i suoi monasteri) che confina con un Azerbaijan musulmano e la convivenza fra le due comunità non è stata sempre facile. Oltretutto gli azeri sono sostenuti dai confratelli turchi passati alla storia anche per il genocidio degli armeni nel lontano secondo decennio del 1900. Insomma una piaga civile e politica che ancora è vivissima nei cuori degli armeni.
La seconda consistente ragione è che l’Azerbaijan in questi ultimi anni si è enormemente arricchito con l’esportazione di gas e petrolio. Ciò fra il resto ha permesso il suo riarmo e di conseguenza la vittoria contro i separatisti armeni. Delle due pipeline che trasportano l’oro nero in Europa occidentale, una passa a pochi chilometri dalla frontiera con il Nagorno-Karabakh e ciò faceva temere a Baku eventuali attentati terroristici che potevano mettere a repentaglio i flussi di gas e petrolio. Ottime ragioni per sigillare duramente la frontiera del Nagorno fino a minacciarne la stessa esistenza.
Come evolverà la situazione degli armeni circondati è ancora troppo presto per comprenderlo. Di fronte agli ultimi sanguinosi eventi il nostro ministro degli esteri Antonio Tajani ha rilanciato l’idea del modello Alto Adige da esportare in Nagorno: sovranità azera (come è già oggi internazionalmente) e forte autonomia armena nella regione. Proposta non nuova lanciata in sede CSCE già agli inizi degli anni ’90, ma mai presa realmente in considerazione. Troppo tardi ormai e troppi i giochi di potere intorno ai contendenti. Se in più di vent’anni si è arrivati alla terza guerra senza mai cessare del tutto le ostilità, è largamente improbabile che ci si metta intorno ad un tavolo di pace per trovare una soluzione che vada bene a tutti, azeri, armeni, turchi, russi e occidentali.
Un’instabilità condannata a durare nel tempo e ad estendersi ad altre parti del Caucaso fino a raggiungere i confini dell’Iran che ha forti contenziosi di confine con gli azeri. La forza, non la diplomazia, ha deciso il corso di questi drammatici scontri fra azeri e armeni. Ora comincia la dolorosa fuga verso l’Armenia dei 120.000 separatisti del Nagorno strappati alla loro terra millenaria. Si ripete una storia che abbiamo visto già troppe volte.
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