Migranti, Meloni gioca la carta africana

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kaïs Saïed e Giorgia Meloni (Foto Commissione europea)

Le vacanze per il governo sono ancora lontane. La premier è scossa fra le fibrillazioni interne alla sua maggioranza e il suo piano di accreditamento a livello di politica internazionale. Se il secondo aspetto le fa gioco per il ruolo che pensa di giocare nell’Europa post elezioni del giugno 2024, il primo, proprio a causa di quella scadenza, ne mina la posizione.

Vediamo di analizzare i diversi aspetti del problema, partendo dall’orizzonte delle relazioni internazionali. Qui Meloni gioca la carta africana per gestire in qualche modo l’emergenza dei flussi migratori. È un problema che riguarda non solo il nostro paese, ma tutta la UE, perché si sa benissimo che i migranti sbarcano in Italia ma poi vogliono trasferirsi nei paesi dove pensano di trovare non solo opportunità di lavoro, ma comunità in cui trovare un qualche sostegno. Concentrata sul fronte ucraino l’Europa del confine con la Russia ha lasciato spazio per la gestione della politica africana alla premier italiana, complice una certa difficoltà della Francia a giocare un ruolo chiave.

La politica del sostegno alla Tunisia è una anche abbastanza cinica, ma inevitabile soluzione tampone per il problema delle partenze. È fallita con la Libia, dove non esiste un governo, ma una guerra civile per ora senza soluzione, potrebbe avere qualche risultato con la Tunisia, che un governo, per quanto non proprio modello di costituzionalismo, ce l’ha. La prospettiva è però più ambiziosa: favorire una ripresa dello sviluppo sulla sponda mediterranea e magari altrove dell’Africa in modo che l’esistenza di opportunità di lavoro in quelle aree attragga lì i migranti. Non è una strategia irragionevole: puntando allo sfruttamento di risorse naturali esistenti (si pensi all’energia solare per l’elettrico) ci sarebbe da guadagnare per tutti, ma richiede anni per andare a regime.

Se questo tempo sia davvero disponibile è quanto oggi viene in discussione. Certo la nostra politica interna fa poco per favorire queste prospettive. I partiti sono tutti impegnati in lotte poco sensate fra loro, occupandosi più che altro di strapparsi reciprocamente dalle mani alcune bandierine.

A sinistra il PD e il M5S si sfidano su chi è più capace di agitare gli slogan della lotta fra sfruttati e sfruttatori. Non che questa realtà sia inesistente, ma riproporla più o meno riverniciando le vecchie diatribe di inizio Novecento non sembra gran cosa. Il massimalismo ha portato pochi e stentati frutti ed ha prodotto molti disastri: prenderne coscienza farebbe fare dei passi avanti, anche se costringerebbe ad una battaglia decisa per metterlo fuori gioco, il che comporta il prezzo di una momentanea rinuncia a costruire subito l’alternativa numerica alla destra (almeno a livello nazionale. A livello di regioni e comuni, dove il riformismo ha più chance, si potrà fare di più e di meglio).

A destra la necessità dei partiti meno forti di non essere fagocitati da FdI li porta ad accentuare la fedeltà alle vecchie bandierine che paiono l’arma più efficace per tenersi stretti gli elettorati di affezione. Da questo punto di vista FI è un caso molto interessante. Pur ogni tanto innalzando il vessillo del centro moderato che è in grado di traghettare la destra italiana in Europa, in sostanza non riesce a liberarsi dal mito di Berlusconi che appare come la divinità in grado di tenere insieme i suoi fedeli. E allora via con l’intestazione al fu Cavaliere della battaglia per la riforma della giustizia, che viene così inutilmente riempita di slogan e simboli che servono solo a renderla difficile da portare a risultato, e avanti col solito ritornello del taglio alle tasse, che però è un terreno sul quale deve misurarsi con la demagogia di Salvini.

Il leader leghista infatti deve fare i conti con un partito che ha portato ad un relativo fallimento. Tramontata l’idea di farne un partito “nazionale” perché al Sud non sfonda e anche al Centro non è che vada a gonfie vele, ridotto a percentuali che non gli consentono certo di porsi sullo stesso piano del partito della Meloni, quello che un tempo amava farsi chiamare “il Capitano” è ridotto a competere inventandosi una trovata al giorno per salvare la sua presenza nei notiziari televisivi e sui giornali. È una tecnica tipicamente da demagogo che però funziona solo fino ad un certo punto in tempi di incertezze, ma anche di qualche speranza di ripresa. Non sfrutta la presa di quei dirigenti del suo partito che come Zaia o su un altro piano Giorgetti ne dispongono, ma piuttosto incita gli altri a seguirlo, in genere malamente, nella tattica delle trovate demagogiche. Può creare fastidi alla crescita di Meloni, difficilmente farà risorgere la leadership dei sogni leghisti.

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