Il momento non è drammatico, per fortuna, ma non è neppure dei più tranquilli. Il contesto internazionale rimane complesso e vedremo se il piccolo accenno di ravvicinamento fra USA e Cina potrà aiutare qualche avanzamento nella risoluzione o almeno nella messa sotto controllo dei conflitti in corso. La situazione europea, con sullo sfondo l’elezione del nuovo parlamento a giugno prossimo, non manca di tensioni: una commissione in scadenza, funzionari che non sanno interpretare quali assetti emergeranno dalle urne non sono il contesto migliore per impostare politiche ragionate di medio periodo.
In Italia siamo alle prese con una politica che si avvita nell’attesa del test elettorale di giugno 2024. Tutti lavorano per accumulare quelle che ritengono munizioni efficaci per vincere la battaglia. Ciò significa banalmente che tutti sono schiavi del grande circo mediatico, che la comunicazione diventa il punto di riferimento dei leader dei partiti. La conseguenza è un lavoro politico che si attorciglia attorno alle guerre di bandierine anche là dove si affrontano problemi niente affatto secondari. L’esempio tipico sono le proposte di riforma per alcuni nodi del nostro sistema giudiziario. Di per sé si tratta di un disegno di legge che deve passare attraverso il vaglio parlamentare, cioè per un percorso che consentirebbe confronti ragionati e interventi migliorativi. In teoria, perché in pratica già si annuncia da una parte e dall’altra la volontà di fare a cornate, sempre in omaggio alla strategia della comunicazione giudicata essenziale per blindare il consenso dei propri pasdaran e per sperare così di incidere su un elettorato su cui incombe l’incubo dell’ampliarsi della fascia dell’astensione.
Chi ha qualche esperienza di come vanno poi le cose in parlamento avverte che questa è la scena sul palcoscenico, poi c’è il dietro le quinte dove si negozia, si lavora per aggiustare un poco le cose. Vero, ma ci sono due osservazioni da fare. La prima è che comunque la lotta nella comunicazione avvelena la pubblica opinione e non fa accettare il risultato finale come una possibile miglioria, ma solo come la riprova della lotta fra i buoni e i cattivi, lotta che ciascuno pretenderà di aver vinto sgominando l’avversario. Ciò porterà quasi inevitabilmente a risultati che poi verranno manipolati nella pratica, così come è avvenuto con tutte le riforme fatte sin qui: non male nelle intenzioni, ma che poi hanno consentito che tutto continuasse più o meno come prima.
La seconda osservazione è la probabilità che il negoziato dietro le quinte parlamentari si concentri più sullo scambio a favore di quel che chiedono le varie lobby interessate (magistrati, avvocati, gruppi di pressione vari) che non sulla razionalizzazione dei procedimenti e delle norme. I tecnici sanno benissimo che infilare nella legge una parolina, una riga, un capoverso formulati in una certa maniera può aprire ad effetti paralizzanti grazie agli spazi che aprono alle interpretazioni più o meno da azzeccagarbugli (un’arte che sarebbe riduttivo imputare solo agli avvocati…). Di queste dinamiche l’opinione pubblica ha scarsa consapevolezza sommersa com’è dagli effetti rutilanti dello sventolio delle bandierine di parte: sceneggiate che si possono fare dai banchi del governo e dintorni, così come nelle piazze mobilitate da una opposizione che crede che lì stia la salvezza in tempi di incertezza.
Si sconta in questa situazione la debolezza delle leadership. Nella destra-centro Meloni mostra carattere e capacità, ma non abbastanza da tenere sotto controllo dei collaboratori che hanno la tendenza a straparlare e che sono rimasti allo stadio di agitatori di piazza. Non è un caso che lei si stia concentrando sulla politica internazionale e su quella economica, ambiti dove può avere il cosiddetto “dominio riservato” senza porsi il tema di una struttura di collaboratori all’altezza delle ambizioni che coltiva in questi campi. A sinistra è un deserto. Conte si rivela ogni giorno di più come un modesto manipolatore che intreccia la faccia del barricadiero con quella del trafficante dietro le quinte. Schlein non sa fare che propaganda vecchio stile movimentista, senza dar prova di capacità politiche propositive, anche perché non può fare come il PCI d’altri tempi che per legittimarsi esibiva le capacità di governo a livello locale: se lo facesse sarebbe costretta ad ammettere che lì lavorano quelli che sono piuttosto lontani dal suo slogan sul “mettetevi comodi” (una frase stupidina, ci si consenta di dirlo).
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