Se è vero che Silvio Berlusconi è stato “un uomo di parte” e il suo successo politico è stato comunque divisivo, inevitabilmente anche l’alta riflessione del card. Mario Delpini davanti alla sua bara in Duomo susciterà giudizi contrastanti.
Troppo tiepida per chi negli anni si è identificato nei successi e nello stile del Cavaliere, troppo generica per chi, pur riconoscendone doti straordinarie di “cacciatore di consenso” anche politico, giudica negativamente la sua condotta personale e deleteria l’influenza della sua leadership nella cultura, nella gestione del potere e nel costume. Su questi ultimi aspetti il nostro settimanale è dovuto intervenire spesso in questi trent’anni.
L’Arcivescovo di Milano, davanti alla responsabilità di un’omelia impegnativa, è riuscito a lanciare un messaggio che va ben oltre le discussioni eccessive di queste ore e che può farsi lezione spirituale (quella che spetta ad un pastore appunto).
Ha parlato ad un popolo, non agli opinionisti o ai cronisti parlamentari, ed ha messo tutto e tutti di fronte “al giudizio di Dio”.
È il chiodo fisso con cui Delpini ha conficcato tre-quattro volte l’attenzione sul fatto che “al compimento” della vita ognuno di noi – dal leader acclamato con tifo da stadio all’ultimo dei suoi maggiordomi – si ritrova ad essere un uomo che “trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento”. Un uomo nella sua creaturale umanità, quindi con la sua grandezza e la sua miseria, gli applausi e gli insulti, le condanne e le prescrizioni…
Ma cosa significa “trovare in Dio il suo giudizio”? Dentro un’interpretazione ecclesiale – la più utile per un’omelia – esso viene spiegato nella prima lettera di Paolo ai Corinzi, quella proclamata al funerale, secondo il quale “tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male. Consapevoli dunque del timore del Signore, noi cerchiamo di convincere gli uomini; per quanto invece riguarda Dio, gli siamo ben noti”.
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