Gestazione surrogata, un no motivato

La chiarezza è un’esigenza evangelica, non solo giornalistica. S’impone nell’affrontare temi bioetici, legati alle relazioni amorose e – ancora di più – all’atto del procreare, avvolto sempre nel mistero. Lo si era notato rispetto al confronto ecclesiale sul tema LGBT+ , va ribadito dopo dieci giorni di polemiche sulla maternità surrogata e sul riconoscimento dei figli di coppie omosessuali. Problematiche certamente collegate, ma che vanno valutate in modo ben distinto.

Da una parte la registrazione dei bambini all’anagrafe rappresenta una soluzione normativa parziale (si tratta comunque di “giustizia del giorno dopo”) per garantire in qualche modo quel “superiore interesse del minore” che è principio cardine della legislazione in tema di filiazione. Anche per l’antropologia cristiana, ogni nato sotto questo cielo deve vedere riconosciuta la propria identità, traccia della sua irriducibile dignità.

Dall’altra parte, quest’istanza a tutela delle creature non deve significare implicita approvazione della procedura “assistita” che ha portato a queste nascite. “Inaccettabile” secondo il magistero ecclesiale, la “gestazione per altri” (in sigla Gpa) è vietata dalla legge italiana, a seguito anche dell’ampio dibattito parlamentare e referendario. Proviamo a riassumerne le motivazioni. Sul piano giuridico essa vìola innanzitutto i diritti del neonato: si parla tecnicamente di “un illecito affidamento di minore”. Non tutti sanno che è previsto che esso venga consegnato entro 60 giorni dal parto, come fosse un oggetto, a conferma di una lesione del principio costituzionale, definito “supremo” dai giuristi, della dignità umana. Ma viola anche i diritti della donna che ha portato a termine la gravidanza, perché le impedisce di acquisire i diritti e i doveri che derivano dalla maternità.

Anche la scappatoia di “contrattualizzare” il ruolo della donna, diffusa in Paesi come Australia e Nuova Zelanda in cui la pratica è molto diffusa, appare comunque negativa per i legami psicologici e relazionali connessi comunque alla gestazione per altri. Sul piano della morale cattolica la Gpa sottrae la procreazione alla dimensione profonda dell’ amore gratuito fra un uomo e una donna e va a configurare la vita come un prodotto e non come un dono, “utilizzando” il corpo femminile come una macchina. Lo afferma da tempo anche il movimento delle femministe radicali, fra le quali la giornalista del Corriere della Sera Monica Ricci Sargentini che definisce “l’utero in affitto” una vera compravendita (“per accorgersene basta consultare i cataloghi delle agenzie”), denuncia le trasferte all’estero di molte coppie (per lo più eterosessuali) al fine di aggirare il divieto e appoggia il disegno di legge per renderla “reato universale” (cioè perseguibile in Italia, anche se commesso all’estero). Ma il dissenso alla “gestazione surrogata” (com’è meglio definirla invece che “maternità surrogata”) va motivato principalmente dallo sguardo “dalla parte del bambino”: egli si trova al mondo scoprendo di avere un’altra madre biologica e/o gestazionale e, nel caso di coppie omosessuali, di avere un altro genitore oltre a quelli che lo riconoscono a livello personale e sociale.

Si obietta che queste figure adulte – mosse da un desiderio di genitorialità/ generatività comprensibile – possono e sanno essere capaci di garantire cura e affetto, come testimoniano alcuni racconti di questi loro figli diventati maggiorenni. Sono molti però – e meritano di essere conosciuti – gli studi scientifici sui figli della Gpa che evidenziano conseguenze molto negative a livello psicologico, anche per i legami che sono relazionali (non solo biologici) con la madre gestazionale. Pure le testimonianze delle cosiddette “gestanti altruiste che” (cioè le donne che dichiarano di “affittare l’utero” gratuitamente, senza scopi di lucro) non sono sufficienti a considerare la loro maternità “a favore” della persona venuta al mondo.

Resta spesso dimenticata l’opzione dell’adozione, una disponibilità ancora oggi fortemente richiesta dai Servizi sociali (ma purtroppo penalizzata dalle procedure) per dare solide figure di riferimento ai bambini soli. Riprendendo in sintesi questi passaggi – l’orientamento di fondo risale alla nota “Donum Vitae” del 1987 – vorremmo cercare di esprimere tutta la delicatezza (e forse anche la tenerezza) che meritano i tanti soggetti coinvolti, con le loro aspirazioni sofferte o le loro ferite spesso riaperte. Dispiace per questo che le loro vite finiscano con eccessi verbali nel tritatutto dei media e delle piazze come “motivo di propaganda o di slogan” come ha rilevato pochi giorni fa il segretario CEI, mons. Giuseppe Baturi. Impariamo a saper distinguere, sulla base di criteri di umanità oltre che di fede. La contrarietà alla gestazione assistita va ricondotta al rispetto della donna e soprattutto al valore irripetibile di ogni persona come frutto donato responsabilmente in una relazione d’amore tra uomo e donna. Non come soddisfacimento di un desiderio ad ogni costo.

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