Il risultato delle urne regionali parla chiaro? A metà. Non solo perché pur essendo un test imponente (più di 12 milioni di elettori interessati, ma il 60% ha disertato la prova) era comunque una prova amministrativa circoscritta, ma perché proprio il livello dell’astensionismo rende difficile la lettura del risultato. Tuttavia se si pensa che tutti stanno aspettando la prova delle elezioni europee l’anno prossimo quando si voterà con un proporzionale secco e senza coalizioni, c’è da fare una semplice premessa: se la gente non è andata a votare per la propria regione (che è comunque un ente poco sentito dai cittadini) come pensare che accorra in massa alle urne per il parlamento di Bruxelles che appare ancor più lontano?
Questo ci induce a considerare che la tenuta governativa della maggioranza di centrodestra sia destinata a tenere ancora un bel po’, a meno che non si sfasci dall’interno. La temuta cannibalizzazione degli alleati da parte di FdI non c’è stata, o meglio si è fermata più o meno ai livelli che aveva già raggiunto alle politiche del 25 settembre. La Lega non ha ceduto affatto nel fortino lombardo, nonostante la performance poco brillante del suo governo alla prova della pandemia: l’ennesimo segnale che chi sta a lungo al governo si costruisce una rete di consenso che poi è difficile scalfire (il potere logora chi non ce l’ha, diceva cinicamente Andreotti – nel medio periodo sembra essere così, nel lungo è un altro paio di maniche). Forza Italia è un partitello di sopravvissuti, ma sfrutta le fedeltà della tradizione moderato-conservatrice lombarda (nel Lazio quel tanto di sottogoverno che ancora detiene a livello nazionale).
La sfida delle opposizioni alla attuale egemonia del centrodestra è stata perdente e non solo per l’incapacità di sommare i voti delle tre componenti che in ogni caso non sarebbero bastati a rovesciare il risultato, ma per l’incapacità a scegliere i candidati giusti. Solo quelli avrebbero potuto portare alle urne una fetta almeno dell’astensionismo, ma è prevalso in tutti il gioco assurdo dell’identità suggerito dai predicatori televisivi dei talk show: così è stato per il candidato “di sinistra” Majorino, così per la scelta di un bravo amministratore, ma senza appeal carismatico come D’Amato, non parliamo della scelta bislacca della Moratti a Milano.
Tuttavia un certo effetto di stabilizzazione ci sarebbe anche sul fronte dell’opposizione, se solo lo si volesse vedere: l’unico partito capace di mantenere il suo cospicuo zoccolo duro è il PD, a dispetto della situazione a dir poco caotica in cui si trova. I Cinque Stelle si confermano un partito di agitazione che regge solo se può fare demagogia: in una contesa sulla regione c’era poco spazio per roba del genere (il mantra sul termovalorizzatore è materia da fanatici). Calenda ha deluso. Aveva puntato a mostrare che esisteva un “terzo polo”, cioè una forza progressista libera dagli ideologismi di una sinistra di cartapesta, ma non è stato in grado di dargli gambe. Il suo spazio può trovarlo nel contribuire dall’esterno a liberare il PD dal populismo e dal massimalismo che ne ha invaso la comunicazione (verrebbe da dire: dalle “Agorà” alla Schlein) e dalla prevalenza del carrierismo interno nella selezione dei suoi gruppi dirigenti.
Adesso il tema che si pone è se la stabilizzazione del dualismo fra FdI e PD potrà portare o meno ad una evoluzione positiva per entrambi. Per il partito della Meloni a passare dal ruolo dei risentiti che hanno avuto la rivincita a quello di un partito conservatore che ragiona in termini di interesse del paese. Per il PD a ripensarsi come partito seriamente riformista, credibile in un approccio realistico e competente davanti alle grandi sfide che pone la trasformazione del nostro contesto socio-economico.
Gli altri partiti non potranno, se questa evoluzione avrà successo, che organizzarsi attorno a questi due poli. Siamo un paese abituato a dividerci in molti rivoli ed è poco realistico pensare che si possa forzare la situazione producendo una polarizzazione banalmente dualista (come si vorrebbe fare con un presidenzialismo abborracciato), ma è altrettanto insensato pensare che si vada avanti con una lotta sotterranea di tutti contro tutti, perché sarebbe il modo migliore per perdere la sfida che pone il passaggio storico attuale.
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