È stato un anno complicato il 2022: si era aperto con la rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella (in contrasto con la sua volontà di ritirarsi) e si conclude con un capovolgimento di equilibri politici, poiché a dominare la scena prima elettorale e poi di governo è un partito che si colloca sulla destra-destra, cosa mai avvenuta perché l’alternanza finora era stata fra centrodestra e centrosinistra.
In mezzo sta la conclusione dell’esperimento del governo Draghi, immaginato nel 2021 come l’intervallo di un esecutivo “tecnico”, rivelatosi uno dei più “politici” della nostra storia. L’ex presidente della Banca Europea non solo lo ha guidato con mano ferma e sguardo alle complessità della congiuntura, ma ha impostato una politica lungimirante che ha ottenuto risultati notevoli per quanto fatichino a riconoscerglieli. Non solo si è conclusa in maniera soddisfacente la prima fase di lotta alla pandemia con la chiusura in aprile della fase di emergenza, ma ha contenuto gli effetti devastanti che potevano aprirsi come conseguenza della scellerata invasione dell’Ucraina avviata dalle pulsioni imperialiste di Putin. Non si dimentichi che in termini di sviluppo economico nei trimestri di quest’anno l’Italia ha fatto meglio di Germania e Francia, il che, come suol dirsi, scusate se è poco.
Draghi è riuscito a riportare l’Italia fra i protagonisti delle dinamiche europee proprio per il prestigio della sua storia e per il riconoscimento che ottenevano le sue competenze. Questo non gli è valso un riconoscimento da partiti che, chi più chi meno, erano sull’orlo di una crisi di nervi, tanto che la sua candidatura come possibile presidente della Repubblica è stata affossata brutalmente e anche vigliaccamente, perché si è sostenuto che lo si voleva mantenere a lungo a capo del governo. In realtà la sua leadership è stata costantemente messa in difficoltà sia da un Salvini sempre più preso da un sogno di rivincita che non aveva basi, sia da un Conte che puntava a mettersi a capo dei Cinque Stelle sbarazzandosi di qualsiasi concorrenza. Gli altri partiti della larga coalizione di quasi unità nazionale si sono lasciati prendere in questo gorgo: il PD impantanato nell’incapacità di scegliere fra un chiaro sostegno a Draghi e la ricerca di coalizione con M5S, FI priva di una linea politica e sempre più dipendente dai capricci di un Berlusconi amareggiato dal vedersi avviato sul viale del tramonto.
Tutto è precipitato fra giugno e luglio. Dapprima quello che pareva un leader importante dei 5 Stelle, Luigi Di Maio, si è avventurato in una scissione che nell’immediato sembrava avere solide basi, ma che in realtà favoriva solo la conquista del partito da parte di Conte. Poi è arrivata la decisione di quest’ultimo di mettere in crisi l’appoggio di M5S al governo sulla base di un documento in 9 punti, chiaramente provocatori a partire dalla questione del termovalorizzatore dei rifiuti a Roma.
Era abbastanza perché Salvini cogliesse la palla al balzo per far saltare la fragile larga coalizione, trovando sponda in Berlusconi illuso di poter rilanciare le sue fortune in un nuovo confronto elettorale drammatizzato. In effetti quell’obiettivo veniva raggiunto perché di fronte alla crisi del sistema Mattarella non poteva far altro che lasciare la parola agli elettori mettendo fine alla legislatura.
Si assisteva così ad un confronto nelle urne che inevitabilmente poneva al centro il partito che con più coerenza, ma anche con un certo equilibrio si era chiamato fuori dalla logica della larga coalizione (senza però contrapporsi del tutto al riconoscimento del peso di Draghi in politica internazionale ed economica). Con FdI guidato da Giorgia Meloni si alleavano sia la Lega che FI, entrambi convinti di potersi mettere su un piede di sostanziale parità. La vittoria elettorale della coalizione ormai di destra-centro era favorita dallo spappolamento della sinistra. Il PD era incapace di scegliere fra una vocazione riformista e le sirene del massimalismo verso cui lo spingevano una frotta di opinionisti che dominavano la scena mediatica.
Si arrivava così alla notevole affermazione del partito di Giorgia Meloni con il pesante ridimensionamento di Salvini e Berlusconi, mentre il PD si avvitava in una crisi interna che lo portava ad aprire una confusa stagione giocata a metà sul tema di rinnovare la classe dirigente e a metà sulle velleità di riscrivere un qualche “manifesto” storico che gli ridesse quanto veniva chiamato impropriamente “identità”.
L’anno si chiude così con un governo di destra-centro che la premier a volte sembrerebbe intenzionata ad orientare in senso più “conservatore” che non di revanchismo ideologico, ma si vedrà. Molto dipenderà dalle sue capacità di tenere sotto controllo le non poche velleità di tipo populista-demagogico, ma altrettanto dall’evoluzione nell’opposizione di forze interessate a promuovere confronti di tipo riformatore anziché prestarsi ad alimentare il teatrino dello scontro pseudo epico fra destra e sinistra.
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