Il 15 dicembre di vent’anni fa veniva inaugurato il MART di Rovereto. Un concept nato 15 anni prima dagli spunti e dalle intuizioni di un artista visionario come Umberto Savoia; successivamente passato attraverso le maglie dei dibattiti nel mondo culturale ed economico locale e delle mediazioni con i decisori politici; infine realizzato nelle forme avveniristiche ideate dall’architetto ticinese Mario Botta (coadiuvato dall’ingegnere roveretano Giulio Andreolli) e incastonato in un contesto urbanistico settecentesco, già caratterizzato dalla presenza della biblioteca civica e di palazzo Alberti-Poja, del liceo Rosmini e del teatro Zandonai.
Un azzardo urbanistico che ha creato un nuovo spazio pubblico, al quale si accede attraverso una nuova agorà, sormontata da una inedita cupola trasparente che esalta il valore etico della luce naturale e che immette in un grande luogo della cultura. Un dialogo tra esterno e interno che sottende il valore sociale dell’arte e la propensione a misurarne l’impatto sulla collettività. Un museo dalle dimensioni, dal prestigio e con le ambizioni (e i costi, coperti in gran parte dalla Provincia autonoma…) di una grande metropoli, affidato a una città di 40.000 abitanti.
Una città bisognosa di riscatto rispetto al recente passato, con il tramonto del suo ruolo di polo industriale del Trentino, e l’aspirazione – mai sopita – a recuperare la vocazione culturale (e con essa turistica e commerciale) che costituisce una delle sue identità storiche più profonde.
Un cantiere dai costi di realizzazione elevati – 50 milioni di euro – e che per il suo mantenimento in questi anni ne ha richiesti altri 150. Un grande investimento in cultura che rappresentava una scommessa per la crescita del territorio. Una sfida declinata su una città sempre divisa tra un cosmopolitismo fuori del comune, una certa propensione al campanilismo e una mai sopita soggezione nei confronti del capoluogo; sempre capace di produrre progettualità lungimiranti e di dividersi su questioni secondarie; sempre in grado di generare grandi proposte ed eventi culturali, accompagnati però da carenza di posti letto, negozi che abbassano le serrande alle 19 e ristoranti che chiudono la cucina alle 21.
Un indicatore dell’esito di questa scommessa possono essere i cinque milioni di visitatori affluiti in questi anni a Rovereto. Un altro l’atteggiamento ambivalente dei roveretani rispetto al museo, non ancora pienamente considerato parte integrante della comunità e del tessuto sociale ed economico, né patrimonio identitario per la città, bisognoso di investimenti collettivi coordinati e capace di generare un indotto non limitato alla pura fruizione turistica.
Gli investimenti in cultura non possono e non devono essere letti nel breve periodo e interpretati solo attraverso i numeri. Un museo deve generare ricerca, stimolo culturale, essere incubatore di creatività e movimentatore di idee.
Questi vent’anni sono coincisi con un deciso cambio di epoca e dei maggiori paradigmi interpretativi della realtà, con effetti dirompenti sia a livello locale che globale. Di questo cambio di paradigma l’arte contemporanea dovrebbe aiutare a interpretare i lineamenti e le prospettive.
La proposta culturale del MART ha cercato di assolvere a questo compito, che però deve essere continuamente reinterpretato e orientato. Il museo è nato in un’epoca e in un contesto territoriale in cui le risorse a disposizione parevano ancora infinite e gli orientamenti della politica e del governo locale sembravano immutabili.
In pochi anni entrambe le prospettive sono radicalmente cambiate, così come le logiche e le modalità di fruizione dell’arte e i criteri di valutazione della sostenibilità nel tempo dei progetti culturali.
La speranza è che chi si trova a governare e gestire un patrimonio culturale materiale e immateriale come quello del MART tenga sempre presente il suo immenso valore sociale e lo investa per il bene della comunità.
Lascia una recensione