Ancora non è chiaro quale sia l’origine dei resti di un missile che ha colpito un villaggio al confine polacco provocando due morti. Anche se non fosse una voluta provocazione russa è abbastanza evidente che in una guerra in cui si utilizzano centinaia di missili contro l’intera Ucraina qualche “danno collaterale” sia da mettere nel conto. Speriamo che l’incidente non blocchi i tentativi di pace. Proprio perché in questi giorni l’abbandono da parte delle truppe russe di Kherson sembrava aprire nuove prospettive per eventuali negoziati fra le parti in conflitto. Innanzitutto, la decisione di Mosca di evacuare la città segnala il raggiungimento di un quasi-equilibrio militare sul terreno. Anche se non potranno vincere la guerra, vista la sproporzione geografica ed economica fra i due paesi, gli ucraini hanno dimostrato una straordinaria forza e capacità tattica da lasciare stupefatti. Lasciamo perdere il fatto che essi siano stati massicciamente armati dagli americani e agli europei. Per contrastare la grande Armata russa occorrono abilità e coraggio, ma soprattutto la capacità di utilizzare le nuove armi che gli occidentali hanno fornito. L’esercito di Kyiv, messo rapidamente in piedi dopo l’attacco del 24 febbraio, ha dimostrato come la motivazione di difendere il proprio paese abbia supplito alle carenze e debolezze dell’inizio. È bene ricordare come il coraggio di pochi soldati, ancora male equipaggiati e addestrati, abbia determinato la prima sconfitta di Mosca e delle sue centinaia di carrarmati in marcia verso la capitale nei primissimi giorni dell’invasione. Oggi, quindi, è probabile che Vladimir Putin abbia compreso che seppure la Russia non perderà la guerra al contempo non la potrà vincere. Ed il fatto che lo zar del Cremlino abbia mandato avanti il suo ministro della difesa, Sergei Shoigu, per comunicare ai russi il ritiro da Kherson testimonia l’imbarazzo e l’umiliazione subita.
È quindi forse il momento di parlare di pace? In effetti in questi giorni assistiamo ad un moltiplicarsi di dichiarazioni in questa direzione. Anche se gli ucraini sono estremamente cauti e si dicono convinti che il cammino verso il negoziato sarà estremamente arduo, purtuttavia il loro presidente Valodymyr Zelensky si è rivolto al gruppo dei 20 riunito a Bali sottolineando che questo è il momento adatto per pensare alla pace. Naturalmente Zelensky ha accompagnato questo suo auspicio con una decina di condizioni ben difficili da fare digerire al Cremlino. Ma la sua, ovviamente, è una posizione tattica negoziale. Quello che è interessante è che anche da parte russa, seppure non da Putin in persona, si sia fatta intravvedere una volontà di trovare una via d’uscita dalla trappola in cui si è andato ad infilare lo zar di Mosca.
A questo punto tuttavia nasce un problema allo stesso tempo politico e psicologico. Zelensky, pur parlando di pace, ha infatti avvertito che di Putin non ci si può fidare. Le mosse del leader del Cremlino non rispondono infatti quasi mai ad atteggiamenti lineari e logici. Le prove sono numerosissime e i suoi comportamenti fatti di bugie e di improvvisi cambi di direzione a U hanno spesso spiazzato gli osservatori. Minacciare l’uso dell’arma tattica nucleare, salvo poi smentire il suo impiego per la semplice ragione che non sarebbe di alcun vantaggio per la Russia. Oppure fare saltare l’accordo sul passaggio del grano nel Mar Nero, per poi accettarne senza apparente ragione il ripristino. O ancora il suo colloquio televisivo con il ministro della difesa Shoigu per ordinare la cessazione delle operazioni militari contro i soldati ucraini asserragliati nell’acciaieria di Azovstal (lasciateli morire come topi), per poi riprendere immediatamente bombardamenti a tappeto sull’intera area fino alla resa degli ucraini. Oppure ancora la promessa di non lanciare più missili su Kyiv, seguita dopo un paio di giorni dal più feroce bombardamento della capitale. Lo stesso ritiro da Kherson avviene qualche ora dopo averla dichiarata “città della Russia per sempre”. Insomma, quale fiducia si può avere in quest’uomo e nel suo staff di potere? Come interpretare i segnali messaggi contraddittori? Sembra ancora valida la sentenza di Winston Churchill dopo Yalta: la Russia è un rebus, racchiuso in un mistero, all’interno di un enigma.
In realtà molte delle mosse di Putin rispondono alla sua origine di membro dei servizi segreti, il Kgb, fin dal suo debutto nella Germania dell’Est: disinformazione, dissimulazione e doppiezza. Certamente un interlocutore altamente inaffidabile. Tuttavia non è possibile prescindere da lui, almeno finché siederà al Cremlino. Di qui l’importanza del ruolo di attori esterni che possano garantire un risultato e offrire una garanzia di sicurezza per entrambe le parti. Il colloquio di Joe Biden, uscito bene dalle elezioni di midterm, con Xi Jinping, rieletto trionfalmente per la terza volta Presidente della Cina, può cominciare a tracciare una rotta negoziale che aiuti a cogliere questa finestra di opportunità per l’apertura di un negoziato. Ma questa volta, a differenza del 2014 quando Putin inglobò la Crimea nella Grande Russia, non ci si potrà accontentare di un precario cessate il fuoco. Un conflitto congelato, come accaduto dopo il 2014, può essere sempre riacceso. E la mancanza di coerenza e credibilità di Putin non fa che aggravare la situazione. Indipendentemente dagli sviluppi all’interno del Cremlino, è quindi più che mai necessario un impegno forte e convinto da parte di Cina e Usa. Ad entrambi interessa la fine della guerra sia per motivi economici che di supremazia a due nel mondo (una specie di G2). Una prospettiva non troppo rassicurante per noi europei, ma l’unica oggi sul tavolo per riportare alla ragione Vladimir Putin.
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