Non si può dire che i tempi di formazione del nuovo governo siano lunghi, anzi a paragone di quel che è successo nel passato e anche in altri paesi saranno ridotti al minimo, a meno di sorprese dell’ultima ora. Ci sono tempi tecnici che non si saprebbe come comprimere a cominciare dall’intervallo fra la chiusura delle urne e la proclamazione degli eletti. Oltre alle consuete necessità di controllo sulle operazioni di spoglio, questa volta ci si sono messe le follie della legge elettorale che fra il pasticcio delle pluricandidature e quello dello spostamento dei voti in eccesso (il cosiddetto “effetto flipper”) hanno reso impossibile convocare le Camere prima di una ventina scarsa di giorni.
Chi si attendeva che nel frattempo, visto che questa volta si è verificato il tanto auspicato effetto di avere un vincitore la sera stessa delle elezioni, si sarebbe giunti alla definizione informale del nuovo governo (quella formale dipende ovviamente dall’intervento di Mattarella). Invece abbiamo assistito più o meno alla solita storia, cioè alla fame di poltrone da parte delle forze politiche vincitrici con continui rallentamenti. Per la verità quegli appetiti appartengono più agli sconfitti fra i vincitori, cioè a Lega e Forza Italia, che non alla indiscussa vincitrice, cioè alla presumibile nuova presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sebbene non scommetteremmo che qualche intralcio non le sia arrivato anche dal suo partito.
Innanzitutto, è fallito sul nascere il tentativo di dividere l’assegnazione della presidenza delle Camere fra maggioranza e opposizione. È stata una prassi lodevole durata solo pochi decenni e abbandonata da tempo da tutte le maggioranze che si sono succedute. Eppure, viste le ambizioni di legittimare un cambio di panorama e di avviare una legislatura costituente, sarebbe stato un atto di grande significato politico. Certo non sarebbe stato facile decidere poi chi potesse rappresentare l’opposizione frammentata com’è (e rissosa), ma almeno il tentativo andava fatto. Non c’è stato verso, gli appetiti da soddisfare erano troppi e le diffidenze reciproche nella coalizione vincitrice troppo forti per non cercare di occupare quelle posizioni importanti.
Poi c’è stata la difficoltà di riempire le caselle ministeriali. Giustamente Meloni vorrebbe un governo di alto profilo, ma in questo paese è difficile imporre quel criterio quando tutti, ma proprio tutti si autodefiniscono di altissimo profilo. Così si è tornati al problema degli “equilibri” fra le componenti dell’alleanza, ma soprattutto al tema di controllarsi a vicenda avendo nel Consiglio dei ministri personaggi capaci di imporre le visioni della propria parte.
Meloni ha cercato di moderare questa situazione in due modi. Il primo nel cercare di avere in alcuni posti chiave personaggi di competenza tale da poter tenere a bada le incursioni dei vari populismi che albergano fra le fila della maggioranza: questo voleva dire puntare su dei “tecnici”. Il fatto è che personalità di quello spessore sono restie ad assumersi un compito che assomiglia troppo alla classica missione impossibile. Se persino Draghi, con tutto il suo peso e la sua posizione, ha faticato a tenere completamente sotto controllo pulsioni varie di alcuni suoi ministri e relativi partiti, figuriamoci cosa possono aspettarsi persone in posizione molto meno solida. Ecco allora che sono fioccati i “no grazie”, perché gli interessati si sono chiesti che senso avesse sacrificare credibilità e carriere in una situazione che unisce ad una congiuntura da mettere i brividi parti politiche che non si rendono conto di quale sia la realtà.
Il secondo modo dovrebbe consistere nel distribuire i ruoli che vanno ai partiti in modo che questi non occupino caselle che consentano loro di mettere i bastoni nelle ruote del macchinista. Si tratta di quello che la stampa ha battezzato come una replica del metodo Draghi, che assegnava i ministeri alle parti politiche, ma poi diceva lui quale personaggio di quella forza era adatto al compito. Né la Lega, né tanto meno Berlusconi (in questo caso è questione di una persona, non di un partito) accettano quell’impostazione. Si tratta di due mezzi perdenti che vogliono garantirsi posti per i loro fedelissimi, a prescindere dalle loro qualità: ne va della loro stessa sopravvivenza politica.
Vedremo presto come andrà a finire, ma a seconda di come si concluderà questa vicenda, che non può certo trascinarsi a lungo perché premono le scadenze a cominciare dalla legge di bilancio, si capirà su che binario riuscirà ad incamminarsi il governo di Giorgia Meloni. Cioè se saremo più o meno nella solita storia, o se qualcosa sarà cambiato.
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