Il triste trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, il recente caso Palamara e la quotidiana lentezza della giustizia italiana, ci impongono serietà nell’affrontare le cinque schede referendarie di domenica 12 giugno, in modo non liquidatorio e superficiale.
Si può capire un certo fastidio davanti alla difficoltà di ponderare questi quesiti ben poco comprensibili, ma questo non dovrebbe scoraggiarci dall’impegno a considerare attentamente la posta in gioco e anche i motivi che hanno portato ben 500 mila italiani a firmare le cinque proposte abrogative (altre tre non erano state ammesse dalla Corte Costituzionale).
È in parte comprensibile anche la scelta di chi non si reca ai seggi perché “boccia” l’utilizzo del referendum per problematiche che – spiega – “dovrebbero essere affrontate e risolte in sede parlamentare” o perché ritiene che la complessa scelta imposta dal quesito non possa essere “tranciata” con un sì o un no, ambedue troppo grossolani.
Sembra una comoda scorciatoia invece quella di far valere la propria astensione dalle urne come una scelta politica, come la contestazione dell’intento abrogativo dei promotori del referendum: più corretto, in caso di dissenso, è andare comunque a votare e chiedere che la legge sia mantenuta nella forma attuale, barrando la casella del “no”. In questo modo, infatti, si va a testimoniare con la propria personale presenza alle urne il valore attribuito alla consultazione popolare.
Uno strumento da correggere. A proposito, le cinque “chiamate” degli ultimi vent’anni non hanno raggiunto il quorum (si riuscì solo nel 2011, sui temi dell’acqua e del nucleare, con un 95% di favorevoli all’abrogazione) e hanno evidenziato le disfunzioni nell’istituto referendario cresciute per l’aumento sproporzionato degli “aventi diritto al voto”, che nel 1948 erano 29 milioni ed oggi sono più di 50. Molti propongono quindi di alzare la soglia delle 500 mila firme necessarie, altri di abbinare sempre il voto referendario ad altre elezioni così da favorire l’affluenza alle urne.
Eppure, al di là dei correttivi necessari, dovremo sempre difendere (e non “sciupare” in modo demagogico) il referendum che rappresenta un importante strumento di democrazia diretta, anche se soltanto abrogativo, previsto dai Padri costituenti. Siamo d’accordo con chi – come il gesuita Francesco Occhetta su Vita Pastorale di giugno – lo considera “un vero e proprio dovere morale”.
E poi l’appuntamento del 12 giugno riporta all’attenzione nazionale un tema talmente importante – l’amministrazione della giustizia – che va ben oltre le intenzioni specifiche (e qualche strumentalizzazione partitica) delle sigle che lo hanno proposto.
Il disegno Cartabia. La lentezza dei procedimenti, gli scandali legati alle nomine negli organismi di controllo, i tempi lunghi della detenzione e la sfiducia crescente dei cittadini testimoniano l’urgenza della riorganizzazione dell’ordinamento giudiziario. Colpisce però una forte resistenza corporativa dimostrata dai magistrati con l’inedito sciopero (peraltro non “generale”) contro la riforma che prende il nome della Guardasigilli Marta Cartabia. Il suo testo, migliorabile ma coraggioso, andrebbe anche a realizzare alcuni degli obiettivi dei referendari e appare ispirato da principi condivisi in tutto l’arco parlamentare, come si è visto nell’approvazione alla Camera: prevede l’aumento a trenta dei consiglieri del Consiglio superiore della magistratura (Csm), una nuova legge elettorale, novità nelle regole per arginare le correnti, l’incompatibilità tra politica e magistratura, la separazione delle funzioni e la riduzione dei fuori ruolo. C’è spazio ancora per qualche ritocco al Senato ma poi gli italiani – referendari e non- s’attendono di poter finalmente contare su una giustizia rapida ed efficiente, come la Costituzione comanda, “a favore della dignità della persona e del bene comune”.
La riforma delle persone. Ha destato interesse la lunga “Lettera a chi lavora nelle istituzioni della nostra casa comune” che il cardinale Matteo Zuppi, neopresidente CEI, ha scritto ai bolognesi per il 2 giugno. Sottolinea la responsabilità e lo spirito di servizio, lascia intendere che ogni riforma, anche la più perfetta, passa sempre dal rigore e dall’onestà delle persone. Scrive fra l’altro: “Quando il lavoro (che resta lavoro) lo viviamo anche come impegno di servizio – nello spirito dell’art. 4 della nostra Costituzione repubblicana, che chiede a tutti di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società – ne sappiamo comprendere l’importanza non per quello che rende o per il successo che porta, ma per il valore che ha in se stesso. Più fa bene agli altri, il lavoro, più fa bene a noi. Anche quando non si vede. Il contrario crea un clima faticoso, competizioni inutili, sensi di rivalsa. Se facciamo bene o male qualcosa, nel tempo richiesto o no, questo ha sempre delle conseguenze”. Vale per chi opera nei tribunali, ma anche per tutti noi.
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