Piccoli passi verso una difesa comune europea

Bandiere Ue e dell’Ucraina al Parlamento europeo a Bruxelles. Foto Sir/Parlamento europeo

E’ da 70 anni che se ne parla. Ed ancora siamo al punto di partenza, o quasi. Il 27 maggio del 1952 i governi dei sei paesi fondatori della vecchia Comunità europea firmavano un accordo che poi avrebbe dovuto essere ratificato dai sei parlamenti. L’accordo prevedeva la nascita della Comunità Europea di Difesa (CED). A sottoscriverlo da parte italiana c’era l’indimenticato Alcide De Gasperi, fortemente ispirato da uno dei padri d’Europa, Altiero Spinelli.

L’impresa era ardita, anche perché si trattava di mettere assieme Francia e Germania che fino a pochi anni prima si erano combattute strenuamente. Alcide De Gasperi non riuscì a vedere il fallimento di questo sogno: infatti morì il 19 agosto del 1954 pochi giorni prima del rifiuto di votare il nuovo trattato da parte dell’Assemblea Nazionale francese. Eppure era stata proprio la Francia a proporre il grande progetto di riconciliazione europea, ma un rigurgito nazionalista e il timore di vedere i tedeschi nuovamente armati, anche se nell’ambito di un esercito europeo, avevano fatto saltare il banco.

Per decenni il tema della difesa europea è stato accantonato o trattato in sottotraccia con proposte modeste di coordinamento fra le difese dei vari paesi, che oggi non sono più 6 ma ben 27.

Ci ha pensato Vladimir Putin con la sua dissennata guerra all’Ucraina a riportare a galla questo difficile tema. Il Consiglio Europeo di metà marzo ed il prossimo, straordinario, di fine maggio stanno riavviando un discorso che in teoria dovrebbe portarci a qualcosa di vagamente simile ad una difesa comune.

La domanda che ci si pone negli ambienti di Bruxelles è di comprendere se questa grande crisi di sicurezza nel cuore dell’Europa sia l’anticamera per un nuovo importante passo in avanti del processo di integrazione europea. In fondo, anche nei due anni della pandemia la UE ha dovuto affrontare una “guerra”, questa volta sanitaria. Ed è riuscita a rimanere unita e a lanciare un piano, il Next Generation Eu, che oltre a moltissimi soldi ha anche avviato procedure decisionali innovative che hanno reso molto più rapide le decisioni.

Accadrà la stessa cosa di fronte alla minaccia di una Russia aggressiva che ci riporta agli anni della guerra mondiale? Dubitarne è più che lecito. Anche se vi sono elementi oggettivi che potrebbero spingerci a cooperare nel campo della difesa, gli ostacoli politici da superare sono immensi. Prendiamo ad esempio le spese che i 27 paesi dell’UE affrontano nel proprio ristretto ambito nazionale. Tutti assieme buttiamo dalla finestra qualcosa come 220 miliardi di Euro all’anno, poco meno della Cina e quattro volte più della Russia. Questi soldi servono a sostenere le numerose imprese della difesa nazionale e un numero consistente di uomini in armi del tutto scoordinati fra di loro. Rispetto agli americani, che investono in difesa quasi quattro volte più di noi, abbiamo ben 146 diversi sistemi d’arma contro i 34 degli Usa. Questi ultimi hanno un solo tipo di carrarmato, noi la bellezza di 12. Insomma una frammentazione e una mancanza di interoperabilità che rende poco credibile qualsiasi tipo di coordinamento. Per di più dal 2009, anno della grande crisi finanziaria, fino all’anno scorso abbiamo notevolmente diminuito le spese nel settore difesa, facendo venire meno l’aggiornamento del materiale militare a disposizione e lo sviluppo tecnologico nel campo degli armamenti. Quindi negli ultimi 20 anni l’incremento delle spese dei 27 è stato del 20%, contro il 300% della Russia e addirittura il 600% della Cina.

Ma allora perché continuare a spendere tutta questa massa di risorse su base nazionale e non cercare invece di addivenire ad una razionalizzazione e messa in comune dei nostri impegni militari? è una domanda che ci si pone da anni, ma che è diventata più urgente in un’Europa nella quale cambiano radicalmente gli equilibri geopolitici. Così, per cercare di porre rimedio a questo gap europeo ci si è inventati l’ennesimo meccanismo di cooperazione, la cosiddetta “bussola strategica” che nel 2025 dovrebbe dare vita ad un corpo di 5.000 soldati pronti ad essere impiegati nelle aree di crisi. Cifra e prospettiva quantomeno modesta, a dire poco. La realtà è che non è solo la questione della razionalizzazione o delle minori spese o di migliori investimenti a doverci preoccupare.

La domanda di fondo è quella di comprendere quale deve essere il significato di una difesa europea. Essa dovrebbe in teoria contribuire a creare una vera sovranità europea. In altre parole, dopo la moneta comune, dopo una politica commerciale e una politica agricola gestite in esclusiva da Bruxelles, la politica di difesa dell’UE dovrebbe aiutare a completare il disegno verso un nucleo di federazione europea, democratica ed efficiente. Non quindi un’iniziativa di guerra, ma un impegno di pace come dovrebbe essere nel Dna originario dell’Unione europea. Insomma, questa dovrebbe essere l’occasione per riprendere i sogni di De Gasperi e di Spinelli nel puntare molto più in alto rispetto alle attuali modeste proposte sul tavolo del Consiglio europeo. Non tutti i 27 governi vorranno starci. Pazienza, si potrebbe andare avanti con un numero più ridotto di paesi. D’altronde, l’alternativa è quella di subire oggi il ricatto russo e domani di chissà quale altra potenza autoritaria.

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