Draghi sembra essersi convinto che mediare coi partiti serve a poco. Tutti sono presi dalla spirale elettorale che non si chiuderà certo il 13 giugno, perché comunque vada si comincerà subito a ragionare per la rivincita a quelle nazionali (ammesso che non lo si stia già facendo). In queste condizioni per il governo c’è innanzitutto il problema di non perdere la faccia davanti all’Europa e alla comunità internazionale (inclusa quella degli investitori che comprano il finanziamento del nostro debito). Perciò bisogna dimostrare che non c’è più spazio per le demagogie disinvolte e pacchiane alla Salvini, ma neppure per quelle più paludate che agiscono in modo coperto.
Le intemerate sul disastro che incomberebbe sui proprietari di casa per la riforma del catasto o sulle cosiddette 30 mila famiglie di balneari che verrebbero espropriate dal capitalismo internazionale se le concessioni venissero messe a gara sono sceneggiate. In questo paese dalla memoria corta ci sia consentito di ricordare le polemiche furiose che vi furono quando si liberalizzò un poco il mercato farmaceutico: appelli sui giornali che prospettavano chiusure di farmacie, vendita senza controllo di farmaci pericolosi e avanti di questo passo. Cosa è poi successo? Nulla di nulla, tutti siamo testimoni che quel mondo è rimasto quello di prima.
Drammatizzare le situazioni è una vecchia tecnica della propaganda politica, ma si dovrebbe usare un po’ di moderazione. I partiti maggiori sono troppo nervosi per consentirsela, consapevoli di un clima di grande incertezza e di un contesto in cui di conseguenza tutto è in divenire.
Il centrodestra che sulla carta (cioè a stare ai sondaggi) sarebbe in posizione di vantaggio è in realtà percorso da molte tensioni.
Non solo ci sono quelle fra le sue componenti: Salvini in concorrenza con la Meloni, Forza Italia che non sa bene cosa farà in futuro, un variegato gruppo di “centristi” che negoziano un po’ con tutti. Ci sono anche quelle all’interno dei partiti: la Lega non è tutta appiattita sulle demagogie di Salvini, perché ci sono i suoi amministratori che sanno bene cosa significhi stare al governo; Forza Italia è divisa fra quelli che tramano alla corte di Arcore e quelli che vorrebbero non finire nell’irrilevanza per mancanza di un progetto politico.
Quanto al centrosinistra la situazione non è rosea. Sebbene il PD tenga nei consensi che ha riguadagnato non è abbastanza forte da dominare un cosiddetto “campo largo” che esiste solo come stanca ripetizione di un vecchio slogan.
Quella che era la principale altra forza, cioè M5S, versa in uno stato di crescente confusione. Conte si dimostra sempre più un leader di cartapesta, incapace di imporsi per visione politica, avendo ridotto tutto alla riproposizione di usurati slogan grillini. Ci sarebbe da chiedersi cosa abbia imparato in una non breve permanenza a palazzo Chigi e se non sia stato ormai abbandonato da quella fazione di burocrazia che aveva un tempo scommesso su di lui. Per questo i pentastellati sono una spina nel fianco non solo del governo a cui non apportano alcun contributo rilevante (a parte Di Maio, che gioca per sé, non c’è uno straccio di loro ministro o sottosegretario che ricopra un ruolo apprezzabile), ma della stessa coalizione di cui vorrebbero continuare a far parte.
La reciproca scomunica fra Cinque Stelle e centristi (Italia Viva e Azione) lascia il tempo che trova. Il PD non riesce ad arbitrarla avendo il problema di tenersi più o meno stretti entrambi, con la complicazione di una estrema sinistra (LeU) anch’essa sempre meno incisiva e presente a parte il buon Bersani che fa il giro dei talk show perché sa porgere battute fantasiose. Eppure se, come purtroppo è quasi certo, rimarrà l’attuale pessima legge elettorale, sarà problematico costruire per le urne il contraltare al centrodestra.
Paradossalmente in questa situazione che unisce crescenti incertezze con evoluzioni economiche ed internazionali che non si riescono a prevedere i partiti hanno interesse a far andare avanti Draghi il più possibile, ma senza rinunciare alla minaccia continua della crisi di governo. Una situazione a dir poco surreale che mentre consente che si proceda abbastanza sulla via di implementare il PNRR mantiene tutto sull’orlo del baratro. Un contesto molto rischioso dove la possibilità che si perda il controllo della macchina continua ad incombere.
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