“Un esempio anche nella sconfitta, l’Italia saprà risorgere”. Parla il cappellano della Nazionale italiana di calcio Massimiliano Gabbricci

Don Massimiliano festeggia a Coverciano il compleanno di Gianluca Vialli assieme allo staff della Nazionale. Due giorni dopo l’Italia a Londra vincerà l’Europeo

Dal tetto d’Europa al Barberazo, da Donnarumma che para il rigore di Saka a Donnarumma che nemmeno sfiora il destro di Trajkovski e Nazionale condannata al secondo mondiale di fila dal divano. Otto mesi in otto secondi, gli eroi di Wembley finiti nel tritatutto, assieme a una coppa che mancava da mezzo secolo, al bel gioco e tutto il resto.

Tutto polverizzato, dimenticato? Una domanda che giriamo a don Massimiliano Gabbricci, cappellano della Fiorentina dal 2006 e, da dieci anni, anche della Nazionale.

“Se si riesce a imparare qualcosa dalla sconfitta no. Mi ha colpito una frase straordinaria pronunciata da Mancini dopo la sconfitta: ‘Voglio più bene ai miei ragazzi oggi che a Wembley’. Parole clamorose quelle del ct, perché è vero che siamo finiti letteralmente dalle stelle alle stalle ma anche la stalla ci sta insegnando qualcosa. Il momento più duro, di maggiore abbassamento, per usare un termine teologico, della fatica e della difficoltà, ci insegna qualcosa di importante. E così il progetto riparte”.

La scelta di continuare con Mancini va in questa direzione.

“Dopo l’esclusione dai Mondiali in Russia, Roberto ha saputo fare qualcosa di straordinario e non a caso ha ottenuto il record di gare consecutive senza sconfitte. Fin da subito ero sicuro che avremmo vinto l’Europeo, non mi facevo problemi a dirlo provocando gli scongiuri di tutti. Nei giorni successivi alla vittoria, Mancini venne a ricordarmelo, e allora gli risposi che in realtà non ero il solo: anche tu sapevi già tutto Roberto, gli dissi, ma a differenza mia, mica potevi sbilanciarti così tanto…

Una Nazionale anche fortunata ma, va detto, certamente bella.

Per me la più bella, anche di quella dei campioni del 2006 o di quella di USA ‘94, che tra le sue fila aveva il più forte giocatore italiano di tutti i tempi, Roberto Baggio. La vittoria europea ci ha fatto dimenticare in parte la crisi del nostro calcio e non appena la coperta è diventata corta – mettiamoci la sfortuna, gli infortuni e una condizione non ottimale di alcuni giocatori chiave – è arrivata un’eliminazione cocente: ma nella vittoria come nella sconfitta, questo ha dimostrato di essere un gruppo importante, guidato da una persona importante”.

Don Massimiliano Gabbricci, cappellano della Nazionale italiana di calcio

Lei ha la fortuna di stare vicino ai calciatori, di conoscerli davvero: oltre ai “lustrini” che rimbalzano sui loro profili social c’è dell’altro?

Iniziai nel 2012 con Cesare Prandelli, con il quale avevo già un ottimo rapporto, nato durante gli anni alla Fiorentina. Da quel momento mi è capitato di seguire i ragazzi anche all’estero, con mister Conte in Francia ad esempio. A Coverciano celebro la Messa, ceno con la squadra e mi metto a disposizione per chi si vuole confessare o semplicemente scambiare due parole. E l’umanità che trovo in questi ragazzi è la stessa di chi vive una vita ‘normale’. Sotto il lusso e le immagini patinate dei soldi e del successo, c’è l’umanità che, mi creda, emerge confrontandosi anche con i calciatori più giovani, assieme alle fatiche di chi si rende conto che non è tutto oro ciò che luccica. Nei calciatori ho saputo trovare sentimenti veri, una bella umanità, ricca, mantenendo nel tempo anche ottimi rapporti. Sicuramente in alcuni casi vanno aiutati, e questo è il mio compito, ma stare con loro rappresenta un arricchimento reciproco: non ho solo dato, ma anche ricevuto tanto.

Il calciatore può essere quindi ancora un esempio positivo?

Quando parlo con loro ricordo spesso che hanno una grande responsabilità: al ragazzino che li segue sui social e in tv, che li vede come idoli, stelle splendenti e che farebbe di tutto per avere una maglia autografata o anche solo per una foto insieme e una stretta di mano, vanno veicolati messaggi importanti. E loro li possono dare, non solo nella vittoria, ma dimostrandosi anche fragili e vulnerabili dopo la sconfitta che fa parte del gioco come della vita. E se sappiamo rialzarci senza ogni volta fare lo scaricabarile, già stiamo lanciando un messaggio importante, di rinascita, di ripartenza con uno spirito nuovo, un insegnamento che va oltre i confini dello sport.

E oggi ne abbiamo più che mai bisogno…

Quando si gioca, si perde e si vince tutti insieme, bianchi, neri, cristiani, musulmani indossano la stessa maglia e lo spogliatoio diventa un esempio di convivenza nella differenza. Se c’è il dialogo c’è anche l’incontro al di là delle differenze che devono diventare ricchezza e non divisione. Credo davvero che il calcio e lo sport in generale possano diventare un veicolo importante di fraternità. Nel momento storico che stiamo vivendo, con negli occhi le tragiche immagini della guerra che si sta combattendo in Ucraina, abbiamo bisogno di testimoni a tutto tondo: dal piccolo frammento del professionismo alla genuinità della fonte come possono essere gli oratori, le società dilettantistiche e amatoriali, le nostre realtà ecclesiali e parrocchiali da cui anche tanti campioni sono partiti. Ripartiamo da qui e non abbiamo paura di testimoniarlo a livello assoluto, coinvolgendo anche i grandi campioni, perché soltanto così lo sport saprà creare ponti abbattendo i muri.

Pensando ai muri, quello eretto dalla pandemia è bello alto. Come aiutare tanti giovani sportivi a superarlo?

A loro voglio dire di guardare il futuro con lo stesso entusiasmo con il quale stanno tornando a fare sport dopo due anni difficili, con lo stesso impegno, passione e sacrificio, ma anche con il divertimento, la gioia e la voglia di stare bene. Ricordatevi di questi due anni di distanziamento, dell’assenza di relazione e trasformateli in energia buona. Ci siamo fermati, siamo ripartiti: ragazzi, vi auguro di tornare a fare sport con un entusiasmo ancora più forte, perché lo sport è bello, affraterna e ci rende migliori.

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