Riva: 50 anni fa nasceva la ferrata dell’Amicizia. Il racconto di tre protagonisti di quell’impresa

La ferrata dell’Amicizia e i suoi “pionieri”

”Quando la scala è strapiombante, ti accorgi di quanto pesa il sedere”. In questa battuta di Mauro Caceffo c’è la sintesi della sensazione che hanno provato le decine di migliaia di persone che in questi 50 anni hanno percorso la ferrata dell’Amicizia: quando si affrontano le sue scale – il marchio di fabbrica di questa via attrezzata – il fondoschiena diventa una zavorra che fa a cazzotti con la forza di gravità.

Le scale non parlano, ma le centinaia di pioli che compongono quelle fissate mezzo secolo fa sulle pareti della Rocchetta, ne avrebbero di storie da raccontare. Era il 1970 e mancavano un paio di anni al centenario di fondazione della Sat, la sezione trentina del Cai. Tra i satini rivani c’era una sezione – e c’è ancora oggi in verità – che raccoglieva gli appassionati della verticalità, il Gram: Gruppo rocciatori e alta montagna. Da qui nacque l’idea di una ferrata celebrativa, grazie soprattutto alla spinta di Renzo Tonelli, Giorgio Bombardelli, e Mario Foletti. Di quel gruppo facevano parte, tra gli altri, Gino Bugoloni, Mauro Caceffo e Franco Micheloni, che oggi ripercorrono a suon di aneddoti quell’esperienza straordinaria.

Era un altro mondo, in tutti i sensi. Perché all’epoca i rocciatori erano visti come creature un po’ strane, “che andavano a cercarsi le rogne. In verità il Gram era una bellissima scuola di etica della montagna…”. Quando partivano per scalare, per pudore corde e chiodi venivano stivati per bene nelle sacche. Non come i “climber” di oggi, “che sembrano alberi di Natale”. “La scelta della Rocchetta come luogo dove realizzare la ferrata fu quasi spontanea – raccontano i tre amici – perché alzavi il naso e Cima Sat era lì che ti guardava”. Una scelta che qualche discussione, all’epoca, la creò. Allora la Rocchetta non era certo una montagna di grandi frequentazioni, “e realizzare un percorso attrezzato era anche un modo per valorizzarla”. Cosa che si è puntualmente verificata.

La ferrata dell’Amicizia e i suoi “pionieri”

Per l’attacco, venne sfruttato il “sentér dei ciodi”, un vecchio camminamento della Grande Guerra che si innesta proprio sopra la Capanna Santa Barbara, quasi a 600 metri di quota. Ma per superare le grandi verticalità successive si decise di ricorrere giocoforza alle scale, che messe insieme arrivano a circa 150 metri lineari. Lino Brunelli, il fabbro di San Nazzaro, mise a disposizione il suo laboratorio. Al resto ci pensarono i volontari satini, rubando il tempo libero in mezzo ai turni in fabbrica o in cartiera: le scale in ferro furono costruite pezzo per pezzo, tre metri alla volta e poi trasportate e assemblate in parete. “Gli elicotteri non li avevano ancora inventati”, scherza Micheloni. Per dire che tutto il materiale fu portato su a mano. Un po’ di sollievo arrivò solo al secondo anno di lavori, quando montarono una teleferica per costruire le reti paramassi: “Per farci un piacere portavano su anche il nostro materiale, noi gli allungavamo una bottiglia di vino…”.

Si lavorò due inverni, 1970/71 e 1971/72, perché in estate era un caldo boia in parete e perché “col caldo si andava ad arrampicare”. I primi buchi per fissare scale e cordini vennero fatti a mano, con “ponta e mazot”. Poi, visto che con quel ritmo si sarebbe arrivati alle calende greche, si passò al compressore, un “Cobra” donato dall’imprenditore tennese Ezio Marocchi. Non proprio un aggeggio comodissimo, visto che pesava 35 chili e i volontari lo dovevano portare a spalla. Anche l’acqua per mescolare il cemento la portavano da Riva, nelle “canistre”: “La dovevamo allungare con l’antigelo perché avevamo paura che ghiacciasse”.

A fianco, Caceffo, Micheloni e Bugoloni, testimoni dell’impresa
di mezzo secolo fa

Oggi i nostri tre alzano le braccia al cielo e ringraziano che nessuno si sia fatto male. All’epoca i volontari si assicuravano alle bell’e meglio con una corda in vita e l’unica protezione passiva erano i caschetti che erano stati prelevati “abusivamente” dall’attrezzatura del soccorso alpino. Già, perché molti del Gram erano anche volontari del soccorso, come Gino Bugoloni, che per anni ha guidato la stazione di Riva. Tanta fatica, ma anche tante risate, tante giornate trascorse insieme, i pasti alla capanna Santa Barbara. Insomma, tanta amicizia. E così quando si trattò di dare un nome alla ferrata, si impuntarono come i muli: “Via attrezzata del centenario Sat ok, ma ci attacchiamo anche “Via dell’Amicizia””. Oggi se chiedete a Riva dov’è la ferrata del centenario, i più allargano le braccia. Se chiedete dov’è la ferrata dell’Amicizia, tutti alzano il dito e lo puntano verso cima Sat.

L’8 ottobre del 1972 la ferrata (i lavori erano già conclusi da mesi) fu inaugurata: il cappellano di Riva, don Adolfo Orlandi, detto “don bicicletta” (morto di Covid poco più di un anno fa), celebrò Messa sui 1.276 metri di cima Capi assicurato ad un cordino.

Se oggi ci si può godere lo spettacolo del Garda percorrendo la ferrata dell’Amicizia lo si deve soprattutto a chi, 50 anni fa, cementato dallo spirito dell’unità, diede concretezza ad un sogno che a molti pareva un po’ folle.

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