Le nostre parole sulla guerra e sulla pace, scritte al caldo e al sicuro, mentre le bombe dell’aggressore russo massacrano il popolo ucraino, uccidono donne e bambini, distruggono città, costringono milioni di persone a rifugiarsi nelle cantine e nelle metropolitane o ad abbandonare tutto in cerca di salvezza sono talmente inadeguate da sembrare talvolta indecenti. Ma il silenzio è più indecente.
Dalla parte di chi è aggredito, nessun vile neutralismo. Ho una enorme ammirazione per il popolo ucraino che resiste all’invasore e difende la sua libertà. Di fronte a un Paese invaso dall’esercito del Paese vicino non ci può essere nessuna neutralità (come si è sentito in molti ambienti pacifisti, dai quali, su questo, sono radicalmente distante). Nessuna vile equidistanza tra chi aggredisce e chi è aggredito. Siamo con l’aggredito contro l’aggressore. Questa non è la guerra della Russia alla Nato, ma la guerra che l’esercito russo invasore fa al popolo ucraino sovrano a casa propria.
Una feroce guerra alle sue donne, ai suoi bambini, ai suoi vecchi, ai suoi malati, ai suoi disabili, ai suoi giovani, ai suoi uomini. È la distruzione di vite, sogni, speranze, normalità quotidiana per lo schifoso disegno imperiale di un prepotente.
Putin osannato dai leader occidentali. Quanta ipocrisia in Occidente su Putin. Da sempre è grande amico di molti leader occidentali, a partire da Berlusconi. Lo denunciò la coraggiosa giornalista russa Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006 (il 7 ottobre, compleanno di Putin), autrice di memorabili reportage sulla ferocia dell’esercito russo contro i civili nelle guerre in Cecenia e sulla progressiva perdita delle libertà e delle tutele dei diritti umani in Russia. Nel suo ultimo libro, “La Russia di Putin”, del 2004 (pubblicato in Italia nel 2006), lo denunciò fin dalle prime righe: “Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati… Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin non ha saputo estirpare il tenente colonnello del Kgb che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione”. Il liberticida russo riesumava il dispotismo sovietico, denunciava la Politkovskaja, grazie alla negligenza e all’apatia del popolo russo, ma grazie anche al “coro di osanna” dell’ Occidente: “In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schröder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano”. Berlusconi, capo del governo italiano e capo del Polo delle libertà, volava a Mosca ai compleanni di Putin (“è un dono del Signore”, diceva), Putin volava in Germania al 60° compleanno del capo del governo tedesco, e leader socialdemocratico, Gerhard Schröder, nell’aprile del 2004. Due anni dopo Anna Politkovskaja veniva assassinata, mentre Schröder saliva ai vertici di Gazprom, la potente azienda russa di gas naturale. I leader occidentali legittimavano l’amico Putin come democratico, mentre in Russia lui eliminava gli oppositori, i giornalisti liberi, i difensori dei diritti umani, le garanzie democratiche. Poi sono arrivati Salvini (“Putin lo vorrei domani mattina come presidente del Consiglio”), Beppe Grillo (“Putin e Trump? Li considero un beneficio per l’umanità”), Giorgia Meloni (“Putin difende i valori europei e l’identità cristiana”). Miserie della politica in tempo di pace.
L’ammirevole Resistenza di un popolo. Noi italiani non sappiamo cos’è la Resistenza di un popolo in difesa della propria libertà. Ci siamo consegnati al dittatore interno, Mussolini, cedendogli facilmente pezzo dopo pezzo la nostra libertà. Per vent’anni. Una minoranza resistette e fu spazzata via, uccisa, imprigionata, esiliata. Gli italiani resi schiavi applaudirono l’invasione dell’Etiopia. Fu il momento più alto del consenso di Mussolini. Perché meravigliarci del consenso di Putin? Le invasioni esaltano l’orgoglio miserabile dei popoli. Arrivarono gli angloamericani a liberarci e ancora soltanto una minoranza di italiani li affiancò e resistette ai nazifascisti. Li ricordiamo ogni 25 aprile. Ma non fu una Resistenza di popolo. Le generazioni del dopoguerra, poi, la libertà l’hanno trovata. Se la godono, ce la godiamo. Non ne conosciamo il valore. Né il prezzo. Di fronte al popolo dell’Ucraina che lotta e muore in difesa della propria libertà rimaniamo sbigottiti e qualcuno, anche professori o politici o militanti usi a frequentare le celebrazioni del 25 aprile, pensa perfino che stanno esagerando, che dovrebbero arrendersi, consegnarsi all’invasore. È un atteggiamento di disprezzo verso il popolo ucraino che potrebbe fare a meno, secondo questi sedicenti pacifisti, della libertà di cui noi godiamo. Non abbiamo nessun titolo per fare prediche agli ucraini. La loro libertà la stanno difendendo ad altissimo prezzo.
La lezione sulla libertà del grande russo Dostoevskij. Senza la libertà l’essere umano non esiste. Esisterebbero dei robot. Dei morti viventi. Senza coscienza. Senza libertà non esisterebbe nemmeno il cristianesimo. Rileggiamo Dostoevskij, l’immenso scrittore russo che è un pezzo della nostra anima, e che un rettore idiota voleva bandire in un attacco di isteria anti-Russia. Rileggiamo la Leggenda del Grande Inquisitore nel romanzo I fratelli Karamazov . Gesù torna sulla terra, ma l’Inquisitore lo arresta. Perché vieni a disturbarci?, gli dice. Abbiamo corretto la tua opera, tu volevi liberi questi deboli esseri umani, incapaci di reggere il peso della libertà, ma noi li abbiamo trasformati in un gregge, e adesso sono felici. Tu hai respinto le tentazione del Maligno nel deserto che ti avrebbero dato l’umanità in mano, col pane, il mistero e l’autorità. L’avresti resa felice, l’umanità. Invece l’hai gettata nei tormenti della libertà. Nulla è più pesante per loro della libertà, anche se ne sono affascinati, continua l’Inquisitore mentre Gesù resta in silenzio. Noi gliel’abbiamo tolta, abbiamo corretto la tua opera e ora sono felici. Va’, tornatene da dove sei venuto. E Gesù, sempre in silenzio, se ne va. La libertà continua ad essere un tormentoso peso, ma siamo stati fatti per la libertà.
La nonviolenza non è passività, ma resistenza. Anche per Gandhi le persone e i popoli non possono vivere senza la libertà. Per questo scatenò una lunga e dura lotta contro l’occupazione militare del suo Paese, l’India, da parte dell’impero britannico. Una lotta nonviolenta. A base di scioperi, boicottaggi, disobbedienza civile, manifestazioni represse nel sangue da parte dei britannici. Come ogni lotta ebbe i suoi costi umani, le sue vittime, le sue contraddizioni, i suoi fallimenti prima che l’indipendenza dell’India fosse conquistata, dopo trent’anni. La nonviolenza gandhiana non è una bella ricetta per anime pie. È sempre concretamente immersa nel dramma umano, senza facili vie di fuga Non è mai rassegnazione, passività, neutralità di fronte all’oppressore o all’invasore. È sempre resistenza. Essa richiede preparazione interiore, autodisciplina, autocontrollo, purificazione in sé dei mali che si vogliono combattere nella società. Capacità di sopportare le sofferenze, e perfino la morte, senza infliggerle. Essa richiede molto più coraggio dell’uso della violenza. Non si preparano dall’oggi al domani, diceva Gandhi, né le persone né un popolo alla lotta nonviolenta. Ma se una persona o un popolo non sono in grado di resistere con la nonviolenza, meglio che scelgano la violenza piuttosto che la codardia. Gandhi lo ribadisce continuamente: “Ho ripetuto infinite volte che chi non sappia proteggere se stesso o i propri vicini e cari o il loro onore, affrontando in modo non-violento la morte, può e dovrebbe farlo affrontando con violenza l’oppressore. Chi non sappia fare né una cosa né l’altra è un peso. Non è degno di essere il capo di una famiglia. Dovrebbe o nascondersi o accontentarsi di vivere in perpetua impotenza, pronto a strisciare come un verme agli ordini di un prepotente” (11 ottobre 1928). E ancora: “Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione” (27 ottobre 1946). Inoltre, ripete Gandhi, la resistenza nonviolenta va personalmente testimoniata, non predicata agli altri. Non posso chiedere agli altri di resistere in maniera nonviolenta all’aggressore armato mentre io me ne sto qui tranquillo e al sicuro credendo di salvare la mia buona coscienza. Il nonviolento dà la sua vita, non chiede agli altri di darla. E non li giudica.
La militarizzazione del mondo e della vita quotidiana. Non è lecito rassegnarsi alla violenza e alla guerra. Bisogna battersi per ridurle o eliminarle, battersi per la pace senza stancarsi mai. La politica avrebbe dovuto prendere il posto del militarismo dopo la caduta del Muro di Berlino. Non è stato così. Le sciagurate guerre “di civiltà” dell’Occidente in Afghanistan, Iraq, Libia e le colossali spese per gli armamenti hanno preso il posto ancora una volta della politica. La guerra è tornata ad essere normale, per l’Occidente e per Putin, non una ripugnante sciagura. Si militarizza anche la vita quotidiana, legittimando la diffusione delle armi tra i cittadini e difendendo chi ammazza un africano inerme, come ha fatto l’assessore leghista di Voghera. Si militarizzano le frontiere per fermare i profughi, invece di costruire politiche migratorie e di accoglienza serie e di affrontare le cause degli esodi. Più armi vuol dire più violenza quotidiana e più guerre. Nel colossale affare delle armi si infilano sempre più i politici. Come l’ex capo del governo e leader della sinistra Massimo D’Alema coinvolto in un affare di 5 miliardi di euro in armi con la Colombia. Decadenza e miserie della politica in tempo di pace. Bisogna fermare questa follia collettiva e tornare al primato della politica prima che sia troppo tardi. Bisogna rifiutare la normalità della guerra. E credere in una politica capace di prevenire le guerre e costruire, con sapienza e pazienza, la pace.
Vincenzo Passerini
cura il blog itlodeo.info
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